Stano Filko / Kiki Kogelnik
Lira Gallery Rome presenta la mostra doppia personale di Stano Filko e Kiki Kogelnik.
Comunicato stampa
Stano Filko and Kiki Kogelnik –
A compact art-historical juxtaposition
In this exhibition of works by Stano Filko (1938-2015) and Kiki Kogelnik (1935-1997), Lira Gallery pays tribute to two outstanding positions within Central European art of the recent decades, whose respective developments were accomplished, at times, on the outskirts of the general course of art history.
Despite their different biographical origins, just across the Iron Curtain from one another, both were primarily invested in the widespread concerns of Nouveaux Réalisme. Kogelnik was a native Carinthian who studied sculpture and painting in Vienna where expressive-gestural French Informel was still stylistically influential, before relocating to New York in 1962. There her acquaintance with prominent Pop Artists such as Roy Lichtenstein, along with general enthusiasm for the rampant technological progress of the 60s - particular space travel - gave critical momentum to her existing approach. Her painterly integration of abstract shapes and everyday figurative elements saw the introduction of several stylistic motifs: floating stenciled figures with abstract modification reminiscent of implant, stray body parts and various symbols on backdrops of gridded or dispersed polka dots, lending the exuberantly colorful imagery a cool, techno vibe characteristic of Kogelnik’s distinctive Space Art variant of Pop Art.
Around the same time in Bratislava, North Slovakian Stano Filko was enacting an even more radical contribution to reality as the direct subject of art. For his 1965 Happsoc-Manifesto (a linguistic conjunction of Happening and Society) he performed a sweeping gesture of appropriation and in a critical expansion of Duchampian strategy claimed the entire city his readymade artwork. However, during the deterioration of the political climate in Czechoslovakia following the violence of the Prague Spring, Filko’s work in the early 70s took a metaphysical turn of sorts. In 1973-74, together with Miloš Laky and Ján Zavarsky, he composed the White Space in a White Space manifesto, which set the foundation for a series of actions, installations and objects centred on the simple act of applying white paint on a white ground, to which Filko ascribed broad symbolic significance. The works enter into a reality of displaced context, and form a mental space determined by infinity, emptiness and immateriality. The colour white becomes both medium and subject of a mystical-transcendent art experience. With its emphasis on the immaterial, Filko’s seemingly escapist exacts reorientation into the metaphysical, which subsequently increased, carried implicit criticism of Marxist philosophy and therefore had a politically subversive dimension. During the 70s, influenced particularly by Eastern schools of thought, Filko carved out a complex artistic system of meaning which observed a cosmology governed by its own laws, that along with the colour white, dominated many of his later works. As conceptual art was at its peak, not least with its concerns of the de-individualisation of artistic production, Filko was expressing a contrary „forced subjectivisation“ that meant his work sidestepped any clear allocation within the major art-historical developments of both East and West.
The early 70s also brought a turning point for Kiki Kogelnik. Following the technological euphoria of the 60s, political concerns - particularly the women’s movement - came to the fore in terms of image content. Seemingly staunch staged self-portrayals with monumental scissors emerged alongside „Frauenbildern“ - painted montages of clichéd female figures posed in the standard repertoire of the fashion world and symbolically charged motifs of animals and tools, all explicitly flaunting their stereotypes. In a decade marked by a general decline in the importance of painting, Kiki Kogelnik’s political content - relatively uncommon to the medium - represents somewhat of an anomaly, and furthermore her characteristic interplay between monochrome and patterned color fills, anticipated the postmodern aesthetics of the 80s and the Neue Wilde.
Both the work of Stano Filko and Kiki Kogelnik can be seen in terms of a counterflow, not quite in sync with the wider art-historical development of their time, so that maybe in the context of these two artists, we can apply that excessively used term Avant-garde just one last time.
Text by Maximilian Geymüller
Stano Filko e Kiki Kogelnik –
Una densa giustapposizione storico-artistica
Con questa mostra di lavori di Stano Filko (1938–2015) e Kiki Kogelnik (1935–1997), Lira Gallery rende omaggio a due figure di rilievo all’interno del panorama dell’arte mitteleuropea degli ultimi decenni, le cui rispettive ricerche si sono sviluppate, talvolta, ai margini del corso generale della storia dell’arte. Nonostante le diverse origini biografiche, da una parte e dall’altra della Cortina di ferro, entrambi gli artisti sono stati in un primo momento coinvolti nelle problematiche relative all’allora diffuso Nouveau Réalisme. Kogelnik, nata in Carinzia, ha studiato scultura e pittura a Vienna, dove l’Informale francese di marca espressivo-gestuale era ancora stilisticamente influente, prima di trasferirsi nel 1962 a New York. Lì la sua frequentazione con celebri artisti Pop, come Roy Lichtenstein, unitamente all’entusiasmo generale per il rapido sviluppo del progresso tecnologico degli anni ’60 – in particolare per i viaggi nello spazio – ha dato un nuovo slancio critico all’approccio che l’artista già praticava. Nella sua pittura, oltre all’integrazione di forme astratte e di elementi figurativi estrapolati dalla quotidianità, si è aggiunto l’inserimento di diversi motivi stilistici: sulla superficie del dipinto ora fluttuano silhouette applicate con stencil, figure che hanno subìto alcune mutazioni in senso astratto e che rimandano a protesi, parti del corpo smembrato, e simboli di varia natura. Questi elementi si incontrano su sfondi a pois, ordinati in modo da formare una griglia geometrica o sparpagliati, che conferiscono all’intera composizione, accesa dai toni sgargianti dei colori impiegati, una vibrazione “techno”, caratteristica distintiva della Space Art, variante della Pop Art, messa a punto da Kogelnik.
Nello stesso periodo a Bratislava, Stano Filko, originario del nord della Slovacchia, stava apportando un contributo ancora più radicale, eleggendo la realtà a vero e proprio soggetto dell’opera d’arte. Nel 1965 con il suo manifesto Happsoc (nome che deriva dall’unione dei due termini „Happening“ „Società“) Filko ha compiuto un atto cruciale di appropriazione che, attraverso un ampliamento critico della strategia duchampiana, è arrivato a rivendicare l’intera città come un suo readymade. Tuttavia nei primi anni ’70, durante l’inasprimento del clima politico in Cecoslovacchia, in seguito alle violenze della Primavera di Praga, il lavoro di Filko ha preso una svolta di tipo metafisico. Nel 1973-74, insieme con Miloš Laky e Ján Zavarský, ha redatto il manifesto White Space in a White Space, che ha costituito la base per una serie di azioni, installazioni e oggetti, incentrata sul semplice gesto di applicare il colore bianco su un fondo bianco, gesto a cui Filko attribuiva un alto valore simbolico. Le opere partecipano così di una realtà priva di punti di riferimento e danno corpo a uno spazio mentale, determinato solo da coordinate quali infinito, vuoto e immaterialità. In questo modo il colore bianco diventa il medium e allo stesso tempo il soggetto di un’esperienza mistica e trascendentale dell’arte. Ponendo l’accento sul dato immateriale, Filko sembra redirezionarsi in maniera sognante ed evasiva verso lo spettro metafisico, orientamento sviluppato maggiormente in seguito, che però portava con sé una critica implicita alla filosofia marxista, e che quindi possedeva una carica politicamente sovversiva. Durante gli anni ’70, influenzato in particolar modo dalle scuole di pensiero orientali, Filko ha costruito un complesso sistema artistico di significati, sottoposto a una cosmologia governata dalle sue proprie leggi interne che, congiuntamente all’uso del colore bianco, ha prevalso in molti dei suoi lavori. Nel momento in cui l’arte concettuale raggiungeva il suo apice, non ultime erano in questo momento le preoccupazioni relative alla de-individualizzazione della produzione artistica, Filko stava esprimendo all’opposto una ,soggettivizzazione forzata', il che voleva dire che il suo lavoro stava eludendo ogni chiara assegnazione ai principali sviluppi sia dell’arte orientale, sia di quella occidentale.
I primi anni ‘70 hanno portato anche Kiki Kogelnik a una svolta. In seguito all’euforia per il progresso tecnologico degli anni ‘60, le preoccupazioni politiche – soprattutto il movimento di emancipazione femminile – sono venute alla ribalta, diventando ora il soggetto della rappresentazione. Autoritratti che sembrano messe in scena fedeli alla realtà, ma in cui compaiono forbici di dimensioni monumentali, hanno fatto la loro comparsa accanto alle ,Frauenbildern' – montaggi dipinti di figure femminili stereotipate, nelle pose standardizzate del mondo della moda e motivi di animali e strumenti caricati di valori simbolici, tutti soggetti che ostentano la propria natura di cliché. In un decennio segnato diffusamente dalla perdita della centralità della pittura, il contenuto politico di Kiki Kogelnik – relativamente inconsueto per il medium del quadro – rappresenta in un certo senso un’anomalia; la sua caratteristica interazione tra il monocromo e le stesure di pattern colorati ha inoltre anticipato l’estetica postmoderna degli anni ‘80 e la Neue Wilde.
Entrambi i lavori di Stano Filko e Kiki Kogelnik possono essere visti come un’arte controcorrente, non del tutto sincronizzata con il più ampio sviluppo storico-artistico del loro tempo, cosicché, forse, potremmo riferirci a questi due artisti, solo un’ultima volta, con il termine abusato di Avanguardia.
Testo di Maximilian Geymüller