Stefano Abbiati – Il Terzo
Il Terzo per indicare ciò che sfugge alla “rappresentazione dialettica”. Al dualismo io/altro, interno/esterno, visione/sguardo. Per proporre invece il concetto di continui mutamenti e metamorfosi.
Comunicato stampa
Palazzo Vernazza è una struttura cinquecentesca nel centro di Lecce. Ma la sua imponenza sembra sorgere (e insieme sprofondare) in una sorta di durata antichissima che si rifà non solo al medioevo, ma anche all’epoca romana, con un piano interrato al quale si può accedere attraverso una ripida scalinata. Lì c’era il tempio di Iside, la dea dell’acqua e della purificazione, della fecondità e della maternità. Ed è da questo “antro” recentemente restaurato, un luogo che sconfina nel molteplice, la bizzarria, l’assurdo, che prende avvio la mostra di Stefano Abbiati (Milano 1979), dal misterioso titolo “Il Terzo”. Il Terzo per indicare ciò che sfugge alla “rappresentazione dialettica”. Al dualismo io/altro, interno/esterno, visione/sguardo. Per proporre invece il concetto di continui mutamenti e metamorfosi. Non esiste più una dimensione visibile e tangibile dell’opera, ma solo una sua dimensione imprendibile, di fronte alla quale l’osservatore si trova nell’impossibilità di poter cogliere la composizione. La possiamo chiamare indifferentemente la poetica dell’indistinto, dell’ineffabile, dell’invisibile, della profondità. Non importa. Nei trenta “parallelepipedi” (sarebbe riduttivo chiamarli quadri) che Abbiati espone nel piano inferiore e nel primo piano di Palazzo Vernazza, vengono suggeriti abissi e resurrezioni, ombre e trasparenze. C’è una prima stesura realizzata con tempere vegetali su legno e un’altra sovrastante in policarbonato dipinto con tempere sintetiche chiare. Ed è come se l’artista mirasse ad offrire una nozione di immagine che nasce e rinasce, senza mai arrivare ad una definizione. E’ un gioco di veli, di sedimentazioni, che paradossalmente sembrano duplicare le stratificazioni di stili che compongono l’architettura del Palazzo. E’ vero, parvenze figurali si affacciano in superficie, ma sono come consumate dalla distanza o dalla frenesia del gesto. Si potrebbe quasi sostenere che siamo davanti ad un processo, più che ad una ricerca di forma compiuta. Anzi, si ha la sensazione di una sorta di intimità, simile a quella che si può cogliere dentro un banco di nebbia: la si percepisce, la si intuisce, ma non la si coglie mai fino in fondo. Sembra quasi che l’artista si affidi all’atto del rimandare, del differire, del lasciar fuggire. Basterebbe osservare qualcuna delle sue opere (come Sotto gli argini, Athos, Bab-El, Teatro), per accorgerci che il nostro occhio va incontro a una doppia, paradossale esperienza: quella di abbracciare l’immagine e quella di non vedere quasi nulla, se non la sua sparizione. Così, l’opera, pur avendo una sua plasticità e un suo aggetto, si apre su una nozione di spazio interiore, profondo. Abbiati potrebbe dire con Fontana: “Io non voglio fare un quadro, ma esprimere uno spazio”. Solo che a differenza di Fontana, egli non impiega un “gesto senza riparo” non cerca l’oltre, ma vuole portare l’oltre qui, mettercelo sotto gli occhi, trasmetterci l’emozione che solo gli stati di passaggio possono produrre. Dunque, le varie strutture che pure si avvicinano a un’idea di monocromia, di color polvere e color cenere, non alludono a una condizione di negazione, quanto alla categoria dell’”intravedere”, collocando l’immagine in un luogo esterno ai confini del visibile. Ecco, perchè si allude al “Terzo”: perchè si tratta sempre di sagome e motivi da esplorare con la mente e che è impossibile mettere davvero a fuoco. Un “Terzo” che va oltre quello platonico (troppo centrato sull’ideale), per prediligere il “Terzo” di Deleuze che orienta l’attenzione sul dato fenomenico e sul continuo spiazzamento visivo. Il Terzo, inteso come superamento di ogni normalizzazione del sapere, in favore dell’interrogazione permanente del sapere stesso. (Luigi Meneghelli)