Stefano Davidson – Sintomi cromatici & non

Informazioni Evento

Luogo
GRAFICA CAMPIOLI
Via Vincenzo Bellini 46, Monterotondo, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal Martedì al Sabato dalle 16.00 alle 20.00

Vernissage
26/05/2012

dalle 18.00 alle 21.00

Biglietti

ingresso libero

Artisti
Stefano Davidson
Generi
arte contemporanea, personale

Onirico o reale? Colore o “bianco e nero”? Un appassionante viaggio retrospettivo nella pittura figurativa di Stefano Davidson. In esposizione una trentina di opere tra le più rappresentative.

Comunicato stampa

In questo appassionante viaggio nel mondo dell'artista Stefano Davidson attraverso questa sorta di concentrato retrospettivo, lo spettatore si trova ad affrontare il colore, rigorosamente ad olio, a volte violento, di visi, corpi e cose che, pur rappresentandosi nella loro forma vera ed assolutamente conforme a se stessa, emanano con forza la propria origine, sempre in bilico sul confine tra l'onirico ed il reale. Come il Don Chisciotte che invece di andare contro i mulini a vento si ferma a riflettere, solo, in sella a Ronzinante, in un opera dove manca completamente il contatto terreno, ma dove il protagonista è avvolto in un cielo di nubi che paiono essere rappresentazione del suo stesso pensiero. E ancora un altro Don Chisciotte questa volta a cospetto di un se medesimo, intenti entrambi a scrutare il futuro, in un improbabile quanto dilacerante aut/aut, sé a sé, il genio e la follia appunto come recita il titolo dell'opera. E poi sempre “El ingenioso hidalgo” è rappresentato dapprima di profilo, severo ed austero, quasi impegnato ad essere vera iconografia di se stesso. Quindi è di nuovo ritratto attraverso un primo piano disarmante, in cui si legge tutta la necessità di comunicare la propria intima essenza. Attraverso la sua espressione, al limite della follia, capiamo la difficoltà che prova di rendere a parole il mare di idee che lo pervadono. Uguale a dire il coraggio della follia, o la ragione delle idee, per strambe, folli, alogiche possano sembrare.
Lasciato quindi il “Cavaliere dalla Triste Figura” ci si imbatte in quattro ritratti dalla forza entusiasmante e dai colori intensi. Ciascuno di loro tiene in mano una carta da gioco, un asso, e ce la mostra tentando di penetrarci il pensiero con sguardo assolutamente ineludibile. Tra loro una quinta figura che, guardandoci con espressione tra il folle e il disperato, ci mostra “la matta”, il jolly, urlandoci in faccia qualcosa. Ma nonostante il suo grido sia muto, ognuno lo percepirà e, sono sicuro, ne rimarrà scosso.
In un'altra tappa di questo viaggio, incappiamo nell'uso tipico che Davidson fa del “bianco e nero” e di tutte le sfumature di grigio che lo compongono. In questa sezione ci troveremo di fronte a una figura che pare appoggiata alla tela e che, da “dentro” di essa, ci osserva attraverso una sorta di finestra velata, rassegnata della sua condizione bidimensionale e prigioniera della propria rappresentazione. Un passo appena più in là e siamo di fronte a un mare quasi nero, sotto un cielo grigio e, attraverso sbuffi nebbia, individuiamo un vascello navigare all'inseguimento di un altro. Quest'ultimo però lo intuiamo più che vederlo realmente, rappresentato com'è in maniera al limite estremo dell'essenzialità. Quello raffigurato su questa tela è un inseguimento infinito perché, al solito, le due figure sono imprigionate nella bidimensionalità e nell'immobilità del dipinto, poiché è questa la rappresentazione che l'artista fa della ricerca dell'Es, un continuo inseguimento di un qualcosa che proviamo a raggiungere, ma che in fondo resta sempre alla stessa distanza da noi e dalla nostra capacità oggettiva di capirlo o di carpirlo. Sempre in “bianco e nero” è la figura immersa in un mare di nebbia: è la “nebbia del pensiero”, quella che spesso ci impedisce di vedere la realtà delle cose e ci tiene immersi nella nostra visione soggettiva di ciò che si affronta, quella che non si riesce a dissolvere soltanto agitando le mani o provando a tentoni ad orientarsi. Tutto questo “bianco e nero” secondo l'intenzione di Davidson dev'essere però tinto dall'emozione di chi si para davanti a ciascuna opera, e quest'operazione, assolutamente istintiva, porterà l'inconscio di chi osserva a confrontare il proprio intimo con l'Es stesso dell'artista.
In questo viaggio si incontra poi il tema della duplicità dell'interpretazione rappresentata, a colori, in due opere di sicuro impatto, in cui i protagonisti sono al cospetto di due tempeste, e sarà compito dello spettatore stabilire se esse sono passate o, al contrario, stanno per investire la madre con il bimbo in braccio, rivolta verso un orizzonte ove si scorge una sottile linea di sereno (“la Speranza”), o l'uomo seduto sulla panchina, protetto solo da un piccolo ombrello, intento ad osservare il volo di un aquilone appena intuibile nel suo colore rosso, stagliato contro il cielo in burrasca (“L'aquilone”).
E poi Penelope, rappresentata sfiancata dall'attesa, appoggiata a un tavolo, sola. Prospero e Calibano protagonisti de “la Tempesta” di Shakespeare intenti a mostrarci i loro “mondi” diversi, sono rappresentati in primissimo piano, con tratti forti e coinvolgenti. Ci sono poi i “nudi”, un accenno alla capacità dell'artista di rappresentare l'anatomia, soprattutto femminile, con precisione, calore e raffinatezza, il tutto miscelato con sapienza in un misto di pudore ed erotismo.
E poi ancora: “i bambini” una ciclica, dolcissima e misteriosa poetica che da sempre caratterizza l'opera di Davidson. Bambini rappresentati quasi sempre di spalle, o comunque inindividuabili nei lineamenti così da rappresentare l'infanzia in senso lato, totale, passando dalla tenerezza al mistero di un periodo della vita così fondamentale, ma spesso troppo lontano da chi ormai è adulto e fatica a ri-comprenderlo nella sua vera essenza.
In conclusione di questo percorso scopriremo una grande passione dell'artista: la musica. Essa ci viene illustrata letteralmente attraverso una serie di ritratti di jazzisti, assolutamente iconografici nella loro raffigurazione, realizzati da Davidson utilizzando questa volta l'acquerello. In questo caso, il suo uso di questa tecnica non è tradizionale o accademico, bensì interpretato in una maniera assolutamente personale e assai poco ortodossa, che priva l'acquerello della delicatezza che abitualmente lo contraddistingue ma che, nel contempo, lo impregna di forza rappresentativa.
Concluso questo breve viaggio in questa piccola parte del mondo artistico di Stefano Davidson mi permetto di proseguire questo testo, ispirandomi anche alle parole che Giuseppe Fedeli espresse nel suo breve saggio critico sulla mostra Autoanalisi, per affermare che a mio parere la normalità apparente di questo artista è invece estrema stravaganza e, quest'ultima, nell'Arte, è intelligenza suprema, superiore, è “ulteriorità” delle cose, del mondo, è uno sguardo “immemoriale” sui brandelli di un vissuto che in tutta la sua opera lascia tracce di un deja vù destinato a cementarsi nel nostro peregrinare nel mondo dell'Arte ancora in cerca della meta, dell'Eden, e ci regala una ragione che dà spazio all'immaginare, al sognare, al daseyn. Che altro dire se non che l'arte di Stefano Davidson altro non è che una foresta di simboli e simbologie di baudelairiana memoria, che echeggia di riminiscenze, di allegorie. Non ci si illuda allora di camminare in uno spazio familiare, perché ci troviamo nel cerebrale che sposa l'onirico, dove il razionale strizza l'occhio a deità hillmaniane, dove l'inconscio è conscio e la nevrosi è dietro l'angolo, dove la follia reclama un suo statuto, stanca di rimirare il suo sparring partner, quel nomos da cui quella normalità, della quale personalmente ne ho piene le tasche, che ci trascina nei vortici limacciosi che sfociano nella palude stagnante dell'omologazione, dell'iper-reale fine a se stesso, destituito dal senso, della coazione a ruminare bovinamente copioni spesso astratti ma altrettanto frequentemente senz'anima, freddi, laschi, asettici. La pittura di Davidson invece, a mio avviso, nella sua normale raffigurazione di corpi e cose con i tratti di cui questi corpi e cose necessitano per essere realmente se stessi, rappresenta comunque il mondo del pensiero attraverso il filtro di una combinazione di scenografia e mistero. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte cromatiche a dare anima alla sua opera, come spesso invece accade nell'arte dei suoi colleghi, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che egli fa anche delle parole d'accompagnamento, nei titoli e negli aforismi a ciascun opera legati, che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero appunto, invece dell'istinto, è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell'iride. L'opera di Davidson, siffatta di parole e cromie, insegna quindi a partorire un pensiero pensante, logico, significante e performante. Tutto ciò all'esito di una, secondo me, spietata quanto redentiva indispensabile, sacramentale autoanalisi e di una auscultazione del sé dell'Es, del sé dell'altro, e del sé della cosa, quella res che è provvista comunque e sempre di anima, che vibra, implosa nell'atto incoativo e tracimante del suo farsi arte, in ombra o in luce, a colori o in bianco e nero, sensatamente rappresentata o penetrata dal non sense non fa alcuna differenza, e questa, secondo me, è l'arte di Stefano Davidson. Se però non dovesse bastare questa miscela di parole e colori, di fonemi e toni di grigio che egli combina con tanta cura, proviamo allora solo ad osservare attentamente gli sguardi dei soggetti che di volta in volta ci scrutano dalle sue tele. Attraverso quegli occhi, con un piccolo sforzo è possibile catapultarsi all'interno dell'anima creante dell'artista, quella che lo spinge a dipingere, e così a vivere. Da lì dentro con buona probabilità capiremo il tutto.
Yves Lirriverence