Stefano Sevegnani – Vita Crucis
Un Cristo interamente uomo, un uomo di pena come lo sono i poveri, gli umiliati e gli offesi, i migranti, i disoccupati e i giovani che il lavoro non l’hanno mai trovato.
Comunicato stampa
In un’epoca di radicale crisi dei valori, in cui il sacro non ha più cittadinanza di rappresentazione nell’arte, Stefano Sevegnani, artista poliedrico della luce e del colore e della leggerezza, che si è sempre relazionato nel suo processo inventivo al territorio e al contesto, torna a riflettere sulla Via Crucis, disegnando una Via scarna e severa, dominata, nel percorso delle sue 14 stazioni, dalla presenza della croce e da figure tratteggiate su fogli da disegno in modo essenziale per addensamenti e sovrapposizioni delle linee. Sono figure che si apparentano con quelle dalle braccia spalancate che appartengono ai crocefissi delle agiografie medioevali, o con il Cristo arcaico e primitivo dei calvari contadini e della cultura popolare che tanto avevano affascinato Der Blaue Reiter di Marc e Kandinsky. Figure che ritroviamo nel rinnovamento dei linguaggi di primo Novecento, e anche nei disegni e scarabocchi dei bambini e nei segni aniconici delle pitture rupestri della preistoria.
Contemporaneamente, nel tracciare severo di segni, magmatici e di forte espressività declinando insieme il tragico e il sacro, Sevegnani ne reinventa l’iconografia. La sua Via Crucis si inscrive nell’essenzialità del bianco e dell’argento degli sfondi e nel nero dei tracciati a mano libera caratterizzati da una gestualità nervosa ed essenziale. Ciò fa emergere, nei tratti densi e urlati dei neri, esaltati dagli sfondi gelidamente bianchi, calcinati o metallizzati in argento, e solo raramente attraversati o piuttosto punteggiati da spalmature di colore, in un gioco di addensamenti e vuoti che “alleviano”, una Via Crucis dei Poveri Cristi e della nuda vita, che non ha nulla della maestà iconografica, in cui il sacro dice in figure e racconti l’inevitabilità dell’esperienza tragica, attingendo senso da una forma esemplare che si esprime nel simbolo.
Nei disegni di Sevegnani la sofferenza e la morte del Cristo, dell’uomo consacrato, raccontano di noi, iscrivendo, laicamente, l’attuale condizione di vita nella dimensione del tragico che dice il carattere problematico di un’esistenza umana consegnata alla precarietà, in cui non c’è speranza né futuro. Non è più il tragico del romanticismo, espressione di una contraddizione irresolubile come dice Goethe. E’ piuttosto l’espressione della condizione esistenziale dell’uomo, di un modo d’essere al mondo, che la iscrive non solo nella finitezza, nella morte, nella miseria, nel dolore, ma nel non senso della globalizzazione e della crisi di sistema in cui ci troviamo a vivere. Il Cristo è allora il rappresentante del proscritto della società, ne è la vittima. E’ un Cristo interamente uomo, un uomo di pena come lo sono i poveri, gli umiliati e gli offesi, i migranti, i disoccupati e i giovani che il lavoro non l’hanno mai trovato. E come lo è l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij.
Al posto del simbolico e del religioso appare la storia con il suo carico di macerie, di dolore, di infamie e di speranze tradite e inascoltate. Ogni aspetto o immagine è qui apparizione di ciò che abita il quotidiano e il familiare. Così la Via Crucis mette in scena, in un moderno e attualissimo teatro della visione, la presenza del potere e dell’ingiustizia sociale ed economica, e quella della negazione dell’altro, in tutte le loro forme, nei loro strumenti, nello strazio delle carni e della morte e in quella del dolore che essi provocano nelle loro vittime. Così la Via con le sue stazioni racconta la condizione contemporanea in una “scrittura cifrata”, in cui il senso si dà “di traverso”, esplorando situazioni al limite, diventandone allegoria e meditazione sul male in essa presente.
E dunque, rifiutando la rimozione del tragico peculiare del postmoderno, Sevegnani lo fa rivivere, nella sua essenzialità, mostrando che la terra e la storia risplendono di sventura. Ne è l’espressione più piena il volto del Cristo con la corona di spine, un volto che ci guarda e ci interpella, un volto che è il ritratto di ogni uomo di pena al di là di ogni differenza religiosa o etnica, un volto che mette in luce il dolore, la miseria e la sofferenza, e il silenzio, l’indifferenza e la rassegnazione che li accompagnano. E dunque non c’è solo la pietas della narrazione, ma un’iconografia in cui riconoscersi e ritrovarsi uguali nella condizione di vita al di là delle diverse fedi e storie.
Lo stesso luogo dell’esposizione, lo spazio di City Art, nella periferia nord milanese, di cui via Padova è l’emblema della città polifonica e multietnica, dalle molte lingue ed etnie, insieme al fatto che l’esposizione avviene nella data stessa della passione del Cristo, diventano il racconto e la presenza offerta di una narrazione, che attende una resurrezione, che appartenga alla terra e non al cielo. E sia anzitutto presa di coscienza e denuncia. Così, anche se si sa che, come osserva Hegel, il rintocco delle campane dice che il Dio è morto e che non vi sono terre senza male, non è forse vano immaginare la possibilità di un’altra Pasqua e di un’altra resurrezione.
Eleonora Fiorani