Tanja Hamester – Gesture objects. Sul trovare e lasciare tracce
Negli spazi di VOGA, Tanja Hamester ci guida attraverso un archivio in divenire composto da impronte e tracce trovate e create lungo il percorso.
Comunicato stampa
Si definisce impronta l’effetto della pressione di un corpo su una superficie che ne restituisce la forma; la traccia è invece il risultato del contatto tra una superficie e un corpo in movimento. L’impronta è statica, la traccia è dinamica. Entrambe sono indizi dell’avvenuta presenza di un corpo in un luogo, del passaggio attraverso di esso, ma l’una ci parla dell’esserci stati, l’altra dell’essersi mossi.
Tanja Hamester si inserisce nel solco di questa distinzione per costruire una archeologia personale dei luoghi che incontra. Sin dal suo arrivo a Bari lo scorso agosto, infatti, l’artista ha portato avanti un’indagine dello spazio cittadino usando una pratica su cui lavora da anni, un insieme di tattiche volte a non cadere nella rappresentazione stereotipata di un luogo. Ad approcci che riducono un posto ai suoi “luoghi comuni” – attraverso riferimenti a monumenti, edifici, figure, ed eventi del passato – Tanja Hamester oppone una strategia dal basso che si basa su incontri, percorsi e storie. I gesture objects sono gli elementi fondamentali di questa strategia artistica. Ispirati dall'indagine di un territorio, questi oggetti costituiscono un archivio personale, che testimonia il passaggio implicato di un corpo in movimento, quello dell’artista.
Negli spazi di VOGA, Tanja Hamester ci guida attraverso un archivio in divenire composto da impronte e tracce trovate e create lungo il percorso. Alcune di queste sono oggetti regalati da amic* e artist* conosciut* a Bari – Angela Capotorto, Pamela Diamante, Natalija Dimitrijević, Silvestro Lacertosa e Mariarosa Pappalettera – cui l’artista ha chiesto in dono possibili simboli della loro relazione, ricevendo in cambio i contributi più disparati, da una teiera in miniatura a una vecchia fiocina da pesca.
Attraverso i suoi gesti, l’artista ha animato questi oggetti imprimendoli nella pasta sale. Ne derivano degli oggetti performativi, che racchiudono dentro di sé le verità dell’interazione, dell’unicità e del caso. Allo stesso tempo ognuna di queste tracce porta con sé implicazioni politiche ben precise: un’impronta non è mai mera copia dell’oggetto esistente. L’azione performativa dell’imprimere e lasciare traccia svela la responsabilità dell’autore, la responsabilità del mostrare una verità piuttosto che un’altra. Si tratta di un “vedere” e un “mostrare” altrimenti, un testimoniare che si costruisce eticamente come narrazione collettiva.
Questa postura è ancora più significativa se si tiene conto delle premesse con cui viene condotta la ricerca sul territorio: l’artista arriva in città come turista, e usa questa posizione come pretesto per costruire una narrazione personale ma allo stesso collettiva, che tenga conto di tutte le micronarrazioni di chi abita lo spazio. Non a caso, proprio nell’uso della pasta sale come materiale primario della mostra, l’artista svela la necessità dell’interazione con gli abitanti del luogo per poter parlare dello stesso. La superficie che accoglie le tracce dei gesture objects, infatti, è l’esito di due momenti laboratoriali che si sono svolti a gennaio nel cortile di VOGA. In questi workshop l’artista ha proposto ai partecipanti di lavorare insieme alla preparazione della massa, mettendo in scena un re-enactment di una pratica sociale ripresa dal passato.
Questo aspetto celato della mostra ci porta direttamente a uno degli aspetti centrali della strategia dei gesture object, e cioè la rievocazione del lavoro riproduttivo femminile e il suo trasferimento nel contesto della produzione artistica. Per “lavoro riproduttivo” si intende l’insieme di tutte le attività di cura solitamente svolte dalla donna (come il l’avere e crescere figli, cucinare, pulire la casa, aiutare la nonna a fare il bagno), che la nostra società non riconosce come lavoro effettivo. L’artista riflette su questo “lavoro nascosto”, e usa i gesture objects per parlare di un’oppressione sistemica giocando sul filo sottile tra visibile e invisibile.
In linea con questo ragionamento, Tanja Hamester ha scelto di celare dalla mostra anche il suo lavoro performativo dietro i gesture objects e il suo corpo che, rimossi dallo sguardo del pubblico, sono presenti sotto forma di impressioni e tracce: i calchi sui fogli di lattice, appesi nell’archivio mobile, e il wearable display, ovvero un gilet (realizzato in collaborazione con Elvira de Serio) indossato dall’artista durante le performance e installato a muro come espositore degli oggetti utilizzati.
La mostra assume così l’aspetto di un archivio in divenire, inesauribile perché frutto di una ricerca che, cercando delle tracce, ne lascia sempre di nuove.
Tanja Hamester è un’artista la cui pratica si basa sulla ricerca e che utilizza vari media, come l’installazione, il video, la performance, per elaborare tattiche di mappatura e archiviazione.
Il focus del suo lavoro consiste, infatti, nel (de)costruire strutture gerarchiche e relazioni di potere, attraverso tattiche di indagine postcoloniale anacronistiche che combinano fatti storici con una produzione artistica contemporanea.
Tanja Hamester ha studiato presso l'Akademie der Bildenden Künste München, dove ha conseguito un M.A. in Arte e Mediazione e uno in Arti Contemporanee ed Educazione Artistica. Ha studiato Filologia Tedesca presso l’Università Ludwig Maximilian di Monaco con un focus sulla letteratura e l'iconografia medievale. Ha ricevuto diverse borse di studio, tra cui una borsa di studio DAAD per l'istruzione e la formazione all'estero a Roma e una post-laurea DAAD a Palermo, una borsa di viaggio della fondazione Marschalk-von-Ostheim e la borsa di studio d'arte del distretto dell'Alta Baviera. Fa parte del collettivo di artisti Room to Bloom, una piattaforma femminista per narrazioni ecologiche e postcoloniali dell'Europa (co-fondata dal programma Creative Europe dell'UE.