Tattica e Didattica # 6
Mostra collettiva di scultura
Comunicato stampa
Tattica e Didattica # 6
Antonio Portale
Docente di Tecniche del marmo e delle pietre dure
Accademia di Belle Arti di Catania
24 novembre - 3 dicembre 2011
Nadia Arcidiacono / Alessandra Borzì / Pier Manuel Cartalemi / Bruno Alves De Souza / Andrea Famà / Licia Grasso / Iolanda Russo / Tanja Rusjan
CENTRO VOLTAIRE
Via Scuto 19, Catania
Orario di apertura: dal martedì alla domenica dalle ore 16.00 alle 19.00
Info: [email protected]
CON LE PIETRE
Forse, la pietra è materia che si addice ai giovani, in tempi quali gli attuali, difficili per loro, soprattutto, senza troppe prospettive rosee davanti a sé su cui puntare. Quanto meno è solida, sfuggente, priva di punti di riferimento certi, tanto più la realtà compensa il difettare della concretezza che si pretende da essa con la maggiore durezza nei riguardi di altre, più o meno esose, pretese umane. L'Età del Silicio, che alla pietra ci riconduce, sembra decidere fin dalla designazione la sfida lanciata al carbonio di cui siamo fatti. Siamo più arcaici noi, troppo grezzi e grevi, non all'altezza delle virtù rapprese nella roccia, sgrossata e distillata fino a farne un microprocessore o un biochip, cinguettante chimera, che conservano la memoria del fuoco che fu la genesi del pianeta e possono, perciò, fare da contenitore di memorie più recenti e circoscritte. La fossilizzazione del ricordo esce dallo stadio di fossilizzata locuzione per restituire questo fardello all'anima mundi o a una sua rappresentanza qualificata. La pietra, dunque.
Dunque, la scultura come arte dei tempi difficili (fra altre, da inventare o riscoprire), arte che sa di cosa sono fatti i sogni e le parole e di che grondino. Sono bella come un sogno di pietra, mortali! ammoniva la Bellezza personificata nell'omonima poesia di Baudelaire: e i versi successivi ricordano che al seno della bellezza si sono contusi molti amanti che vi attingevano: e perciò, questa delicata cornucopia ispira al poeta un amore eterno e muto come la materia. La scultura, da parte sua, tenta di ritrovare o di ridare la voce alla materia o di ascoltarla - come un tempo la bellezza, la materia, nelle indicibili 'passioni' impresse dalle forze che l'hanno modellata, risuona, con la sua peculiare grana della voce, nell'amour fou che essa ispira. Una volta di più, un'impresa per gente giovane. Dalla loro parte, le pietre e gli dèi - i giovani sanno chi sarà più pietoso con loro.
Quanto a noi, non sappiamo se i giovani si fidano più di noi, ma sappiamo che, se vogliamo guardare con fiducia al futuro, bisogna fidarsi dei giovani: e dunque, mettetegli pietre in mano e non c'è da dubitare, sapranno che uso farne. Come in questo caso - Nadia Arcidiacono, Alessandra Borzì, Pier Manuel Cartalemi, Bruno Alves De Souza, Andrea Famà, Licia Grasso, Iolanda Russo, Tanja Rusjan, coordinati da un artista dell'esperienza e sensibilità di Antonio Portale -, l'uso migliore.
Nadia Arcidiacono si muove in una zona di confine in cui concetto e materia coesistono nell'immagine, che, stretta fra di essi, rigurgita una metafora, dato che nulla è letterale. In Le bugie escono fuori, vediamo un Pinocchio in sonno, cioè, non ancora in grado di rifilarci le sue menzogne, se non quelle che gli permettono di non leggere e così, di emergere pressoché indenne dal libro di testo come dalla favola di cui è prigioniero. Il libro è ancora chiuso, ma il legno e la cellulosa hanno molto in comune anche in una foresta pietrificata di pagine, da cui non è facile tirarsi fuori senza che un manufatto sia interpretato alla stregua di un volume a stampa. Un volume che schiaccia chi si addormenta sulle sue pagine come fra due guanciali per un riposo da fiore disseccato o foglia che torna decrepita all'origine, sul ramo cui era attaccata e dove, ora, negro semen, scorre linfa alfabetica.
Alessandra Borzì, Bacio. Due profili che non si integrano, che non 'combaciano', ma sono inscritti nell'arco concavo che fa da base alla loro celeste nicchia ecologico-votiva. D'altra parte, l'arco che ne recinge e abbraccia il volo poggia su altro arco, murato in basso da una corda in una pienezza che salda alla terra la volta che culla i due profili: simmetria rovesciata, che ripete, nel divergere delle parabole, anch'esse l'una il riflesso dell'altra metà del cielo, la tangenza come legge di gravità per cui i corpi - i gravi - si attraggono. I due emisferi delineano, così, un microcosmo in cui tutto trova equilibrio: la donna con una nube stilizzata che le screzia i capelli; il cammeo maschile ermeticamente sigillato al moto interiore che lo spinge a lei; zenit e nadir che coincidono in un orizzonte di cui les baisers sono le stelle fisse, uniche e binarie.
Pier Manuel Cartalemi ci mette di fronte a Nascita di un'idea, rapporto vitale e tempestoso fra concetto e elemento materiale, dura mater/materia, utero da cui la forma umana, qui, tenta di sbozzarsi a mani nude. Oppure, essa non vuole esserne espulsa e artiglia quella membrana vischiosa e scivolosa che la separa dalla luce che aspetta di agguantarla. La superficie della pietra come una placenta o corteccia cerebrale per un'idea - forse, prematura, forse, sbagliata, ma che non vuole essere rimossa e ricacciata nel profondo. È solo un'impressione sotto la pelle, ma è già una tensione che lascia il segno. Cartalemi non vuole fare dell'opera il mezzo per rappresentare l'idea che nasce, ma rappresentare il nascere stesso dell'opera nell'atto in cui l'idea di essa trova il corpo - l'idea vi è precipitata o cerca asilo e si fa carne nella simultaneità indissolubile e lacerante in cui entrambi sono ancora fusi.
Bruno Alves De Souza presenta un ritratto intenso e coinvolgente, Agonia, la testa di un vecchio che sembra volersi levare al di sopra del grido che lancia, quasi per disincagliarsi del dolore cui ha abboccato e che lo colma o per infrangere la sordità che ne accoglie il prorompente getto, in uno sforzo che ne ha compresso o cancellato la figura. Il grido ne plasma le fattezze, che lo hanno somatizzato: perciò, non ci è dato ascoltarlo: così come, quasi fosse esso il muro del suono che ne è stato infranto, non vediamo la meccanica del corpo proteso da cui sgorga e che ne è amputato. Quella che De Souza raffigura è l'agonia di un grido che si sta spegnendo, anzi, è appena stato troncato in modo altrettanto crudele del dolore da cui è sorto.
In Propulsione terrestre, di Andrea Famà, la figura si scioglie non dalla pietra, ma dal peso, che è anche dell'aria: a intralciarne, a trattenerne l'ascesa non è la natura terrena-terrestre del corpo, ma l'articolazione strutturale, la conformazione 'anatomica' stessa dell'organismo che annaspa e che sembra ostacolare, oberare l'impeto verticale: che, infatti, privo di elasticità, subisce l'urto della pressione che si abbatte su di esso. Lo slancio si è rappreso negli stadi di una spinta che immobilizza la figura, dissezionata in comparti accatastati quanto più tende verso l'alto, lungo una direttrice di marcia che ne trafigge il dinamismo - la leggerezza è sempre un passo avanti e la disomogeneità fra figura e spazio non dà scampo.
Essenzialità come forza, segno come solidificazione, non estenuazione di un'immagine: fra di essi, sembra suggerire Licia Grasso, c'è interazione e Dipendenza, titolo che illustra il senso del lavoro che produrre l'opera ha richiesto. Una corda sbuca da un nodo che sembra imbrigliarla, piuttosto che assicurarne e potenziarne la presa, quanto essa scatta per annodarsi saldamente a un piolo: legame in cui è adombrato un braccio che sfora, che sfugge a un viluppo di muscoli per afferrare, con lo stesso vigore cui si è sottratto, un appiglio o modellare la forza insita nell'oggetto con cui si misura. La materia, lo spazio e il concetto come forze-elementi ugualmente reattivi e interdipendenti - e nella scultura, allo stato puro.
Iolanda Russo lascia che a percorrere la pietra siano allusioni che rinviano a orizzonti plurimi; e viceversa, che la pietra sia innervata dalle suggestioni che la assediano. Lo spazio scaturisce da questi incroci di possibilità e fatalità in divenire scaturiti da e come in questo Big Bang - Work in progress: un bulbo oculare o vegetale che si libra a petali non ancora schiusi e a bandiere spiegate; e un universo che irradia le sue orbite in una cornice di volute rispetto a cui nessuna incisione, taglio o frattura ne scalfirà la morbidezza o ne spezzerà il continuum. Ma questa invulnerabilità non è, forse, meno drammatica e barocca dei traumi che scandiscono la superficie rispetto allo svolgersi dei volumi.
Tanja Rusjan, Ada. Riferimenti di ogni genere, artistici e folklorici, si intrecciano in quest'opera come intrecciata è l''acconciatura' di questa regina detronizzata e in esilio dal Paese dei Balocchi o sconfessata dea primordiale, allo stesso modo in cui i diversi elementi segnici e geometrici concorrono a fissare ieraticamente l'impianto, articolato con rigore geometrico. La superficie è attraversata da linee che, nell'alternarsi delle oblique (quasi volessero decantarne il moto che culmina verso l'alto) e delle verticali (che ritagliano il volto, accentuandone, nell'apparente nudità, l''espressione'), chiudono la figura prima ancora che essa sia determinata da ogni connotazione esteriore che non sia del ritmo conferitogli da un'astrazione geometrizzante che tende a riportare il volume al disegno, quanto più questo sembri sfuggirgli, sviandone o aggirandone le definizioni.
Rocco Giudice