The expanded body
Tutte le ricerche dei sette giovani artisti selezionati sono riconducibili al concetto di “corpo espanso”, pur declinato attraverso pratiche estetiche e tecniche diverse tra loro.
Comunicato stampa
1/9unosunove
è lieta di annunciare l’inaugurazione della mostra
THE EXPANDED BODY
a cura di Angelica Gatto e Simone Zacchini
Carol Rama, Sonia Andresano, Veronica Bisesti, Fabrizio Cicero,
Fabio Giorgi Alberti, Julia Huete, Davide Sgambaro, Vaste Programme
Poco si è scritto e dibattuto sulla perdita di centro del corpo a partire dagli anni Duemila. Che il corpo fosse centrale lo avevano ben inteso - ad esempio - i performer e i body artist che negli anni Settanta fecero della presenzialità un esercizio virtuoso, in grado di spingere il corpo stesso a varcare i propri limiti - arrivando all’impersistenza, a quello che è definibile come “il vuoto”. Ma già in precedenza artisti come Carol Rama (Torino, 1918-2015) avevano fatto dell’esplorazione dei limiti del corpo una costante della propria ricerca. Attraverso una multiforme vocazione che dall’ambito pittorico evade in quello installativo, lo smembramento del corpo nelle opere di Carol Rama sconfina nella tangibile ricerca della valenza metamorfica che il corpo assume nel momento in cui è obbligato a forzare i propri limiti concettuali, divenendo qualcos’altro, radicandosi nella visceralità.
Culturalmente, le radici di questa centralità, senza risalire fino all’antica Grecia, potrebbero essere rintracciate nel Medioevo, quando alle funzioni corporee e alla presenza del corpo nello spazio è dato un ruolo di primo piano nella conoscenza del mondo e di sé stessi. Ecco allora che lo spostamento di asse, questa perdita di centro, conduce in anni recenti a una polarità “corpo espanso”/“corpo vuoto” che ci sembra di poter rintracciare in una nuova generazione di artisti che sta spingendo il medium - che si tratti di scultura o video, disegno o installazione, ricamo o fotografia - verso un ragionamento più ampio sul legame tra corpo (assente e/o presente) e linguaggio, nel tentativo di saggiare il mondo con gli strumenti che già sono in nostro possesso, e non altrimenti.
La mostra si articola sul terreno concettuale aperto dalla nozione che le dà il titolo. Tutte le ricerche dei sette giovani artisti selezionati sono riconducibili al concetto di “corpo espanso”, pur declinato attraverso pratiche estetiche e tecniche diverse tra loro. Oltre a questa ricerca sul corpo legata al tema attuale dell'espanso, gli artisti in mostra sono accomunati anche da una complessità che sembra non rincorrere l'immediatezza della viralità “instagrammabile” di certa arte contemporanea. Si tratta di opere molto dense in cui la stratificazione dei significanti porta a una molteplicità di interpretazioni possibili da parte del pubblico, e in cui l'espansione del corpo spesso si eclissa nel suo contrario, finendo nella sua sparizione o annullamento. Ogni opera dà testimonianza, quindi, di questo terreno di passaggio fluido che dal “corpo espanso” arriva al “corpo vuoto”, e viceversa.
Nei lavori di Sonia Andresano (Salerno, 1983) è sempre presente l’aspetto del divenire, declinato all’interno di una poetica emotiva che non rinuncia alla realtà del mondo e all’ironia. Tali peculiarità ritornano anche nella videoinstallazione scultorea progettata a contatto diretto con uno degli elementi che più caratterizzano lo spazio espositivo della galleria 1/9unosunove: il pavimento a scacchi, utilizzato come una e vera e propria damiera. Ma i due giocatori/performer, invece di giocare con pedine leggere, si trovano costretti a spostare pesi per bilancieri. Nel video della partita i loro corpi vengono ridimensionati per entrare in una scatola, delimitando la propria azione all’interno di un recinto scultoreo, in cui la visione dall’alto sembra schiacciarli. La percezione dello spettatore si fa ancora più straniante quando capisce che, pur invitato a sedersi e giocare, il suo compito è relegato a quello di osservatore di un gioco già giocato, in cui non può minimamente intervenire.
Attraverso soluzioni narrative minime e cortocircuiti visivi, Veronica Bisesti (Napoli, 1991) parte dalla riappropriazione di pratiche quotidiane arrivando a definire una politica dello sguardo e una precisa condizione emotiva. Don’t keep me within compass e la serie di cinque sculture nichelate appositamente prodotte per la mostra si riferiscono allo studio del libro di Christine de Pizan La città delle dame (1405) in cui l’autrice racconta dell’apparizione di tre dame (Ragione, Rettitudine e Giustizia) giunte nel suo studio per confortarla dopo l’uscita del Liber lamentationum Matheoluli (1295 ca.), testo marcatamente misogino di Mathieu de Boulogne, e incoraggiarla perciò a costruire una città che fosse un luogo di accoglienza per donne virtuose e nobili d’animo, una città fatta di pietre rilucenti in cui ciascuna dama potesse rispecchiarsi. Lo stendando in cui ricorre, ribaltata, l’iconografia appartenente a una raccolta di insegnamenti morali del XVIII secolo, definisce uno spazio simbolico, e rappresentativo, per questa città di nuova fondazione: uno spazio di libertà, ed emancipazione, aperto verso il cielo.
Attraverso la serie di cinque sculture in pietra nichelata, Bisesti immagina di popolare la Città delle Dame costruendone le ideali fondamenta e occupando lo spazio con la presenza fantasmatica delle donne virtuose di de Pizan: corpi massicci e rilucenti, di origine ctonia, atti a innescare un nesso diretto tra cielo e terra.
Nella nuova installazione proposta da Fabrizio Cicero (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 1982) ritroviamo l’utilizzo della luce artificiale e del disegno, elementi caratteristici della sua ricerca, ma filtrati attraverso una rete metallica che crea un diaframma visivo invalicabile tra opere e pubblico. La disposizione a parete racconta di una volontà di estendere i propri confini, ma questa propensione sembra rimanere inespressa perché ostacolata. La distanza fra lo spettatore e il soggetto dei disegni si ammanta di un mistero che, attraverso rete e retroilluminazione, filtra la realtà. Le tre “finestre” di cui è composta l’installazione diventano soglie in cui la dicotomia tra esterno e interno, tra presenza e assenza, si trasforma in una riflessione sul limbo sottile che separa possibile e impossibile, mondo tangibile ed intangibile.
Fabio Giorgi Alberti (Leiden, Paesi Bassi, 1980) incentra la propria ricerca sulle relazioni che l’opera innesca con lo spettatore e lo spazio. Collocandosi nella tradizione dell’arte concettuale e impiegando un linguaggio multimediale - scultura, installazione, video analogico e digitale, scrittura - Giorgi Alberti riflette sulla fenomenologia della materia e sul potenziale linguistico insito nel rapporto tra materia e spazio/realtà. Dopo aver impiegato superfici specchianti di produzione industriale, nell’ultimo anno l’artista ha intrapreso una ricerca sulla produzione artigianale degli specchi, a partire dalla tecnica di specchiatura ai sali d’argento sviluppata nel 1835 da Justus Von Liebig. Da questa ricerca nascono gli specchi prodotti per la mostra posti in relazione alle installazioni in cemento, ferro e pigmenti di Concrete Poetry: superfici specchianti e oggetti situati stabiliscono un nesso rilevante nel rapporto intenzionale del corpo con lo spazio, un approccio multiforme che vira nel linguaggio, popolando lo spazio di materia apparentemente inerte e pronta ad accogliere su di sé esperienza e conoscenza attive.
Julia Huete (Ourense, Spagna, 1990) lavora sull’astrazione usando varie tecniche e media (principalmente tessuti, collage e disegno), per indagare la capacità enunciativa della forma astratta come fosse un linguaggio. Le sue opere si sviluppano come processi che, attraverso l’uso di determinati materiali, ne influenzano l’identità, come nel caso delle Composiciones monocromas: grandi arazzi ricamati a punto croce con composizioni semplici realizzate attraverso una linea continua. In questo segno minimo s’intravede l’uso del corpo e il desiderio di esplorare “fisicamente” i concetti di linea e volume. L'intento dell’artista è doppio: l’evento principale si svolge sul piano dell'immagine (con una composizione bidimensionale), eppure il mezzo, il processo e il materiale ne enfatizzano la qualità di oggetto e ne ancorano la presenza a qualcosa di più tangibile.
La ricerca di Davide Sgambaro (Cittadella, Padova, 1989) si sviluppa a partire da un’intensa fase progettuale preliminare in cui si scontrano le variabili di una processualità che ha a che fare con l’esistenza e la sua ineliminabile precarietà. Attraverso l’installazione, il video, la fotografia e l’happening, abbandonando qualsivoglia determinazione auratica e afflato autoreferenziale, l’artista indaga lo scarto tra senso di impotenza e volizione estrema. Nella serie fotografica Four days with an electrostatic friend, Sgambaro sviluppa una narrazione, nel tempo e nello spazio, a partire da un gioco infantile: una volta gonfiato un palloncino, l’artista lo strofina sui capelli creando elettrostaticità e successivamente ne documenta la resistenza sino alla caduta. L’oggetto diviene un MacGuffin e, al contempo, uno strumento sostitutivo come metafora della drammatica precarietà dell’individuo, costantemente sospeso tra presenza tangibile ed estraneità a sé stesso e ciò che lo circonda.
Vaste Programme è un collettivo nato a Roma nel 2017 dall'incontro tra Giulia Vigna (1992), Leonardo Magrelli (1989) e Alessandro Tini (1988). La loro installazione Gänzlich Unerreichbar (“assolutamente irraggiungibile”, citazione da La nascita della tragedia di Nietzsche) trae ispirazione dalla mitologia greca come strumento pre-scientifico di conoscenza e indagine del mondo, focalizzandosi sulle modalità “oscure” di scambio e rielaborazione di dati tra uomo e macchina, come nel fenomeno della Black Box, per cui risulta impossibile osservare i processi interni dell’intelligenza artificiale durante le fasi di deep e machine learning. Nel video, la telecamera viaggia all’interno di quella che può sembrare una caverna o un qualche apparato organico. Si tratta invece di un modello tridimensionale di cui, solo alla fine, scopriamo il soggetto. Il lento movimento di camera è accompagnato da una voce fuori campo, che recita una serie di frasi, tutte estrapolate dalle risposte fornite da androidi AGI durante alcune interviste.
Angelica Gatto e Simone Zacchini