The Habit of a Foreign Sky
Gli artisti hanno elaborato i lavori composti appositamente per la mostra collettiva, riformulando un’architettura multidimensionale che struttura le relazioni umane in un tentativo di ri-situare forme di sopravvivenza autonoma della pratica artistica. Nutrite dall’ambiente semi-urbanizzato dei lavori di riqualificazione del palazzo.
Comunicato stampa
Away from Home are some and I –
An Emigrant to be
In a Metropolis of Homes
Is easy, possibly –
The Habit of a Foreign Sky
We – difficult – acquire
As Children, who remain in Face
The more their Feet retire
(821, Emily Dickinson, c.a. 1861)
Mettere alla prova l’ambiente domestico, ad ogni latitudine, significa esplorare il dominio della casa come modello di un esame più esteso sull’intersezione tra i temi di razza, classe, genere e assorbimento, nel privato, di macro-disposizioni sociopolitiche.
Ma in un palazzo aperto, in transito dalla dimensione pubblica a quella privata, in appartamenti vuoti, non ancora abitati, il termine casa acquista il senso di una limitazione sulla proprietà; diventando un’architettura del vivere nel regno del possibile.
Per la generazione di artisti trentenni italiani, la vita nella possibilità, nella presa di distanza dalle proprie radici, come sottolinea la scelta dell’immagine descritta dal titolo, significa aver compiuto una necessaria ricognizione all’esterno, a partire da una propria misura interiore (We – difficult – acquire). Consapevolezza di uno sguardo fatto di molte case.
E ancora una volta, la società contemporanea si rivela nell’attraversamento, nella qualifica di un insieme di stadi residenziali, di dimore, di confini come dimostrano le urgenze emerse dai recenti flussi migratori. La Dickinson, infatti, non intende abitare il mondo all’interno dell’impossibilità di lasciare casa, seppur alludendo all’immediato cambio di identità che si verifica al di fuori delle mura di nascita (An Emigrant to be). Le parole della poetessa si domandano se nel compiere la visita di altre case, di intimità dimensionali, sia possibile diventare capaci di comprendere, sovrapponendosi, alla diversità dell’Altro.
Seguendo questa traccia, in un percorso dedicato ai lavori di Enrico Boccioletti, Guglielmo Castelli, Alessandro di Pietro, Michele Gabriele, Diego Miguel Mirabella, Giovanni Oberti, Ornaghi & Prestinari, Valentina Perazzini e Jonathan Vivacqua, The Habit of a Foreign Sky indaga la loro peculiare inclinazione, la disposizione di alcuni artisti italiani ad abitare un cielo straniero, un cielo contrario. All’interno di una casa che non è ancora casa e che solo i loro lavori, soggetto e oggetto della domesticità, renderanno tale. In un luogo in cui, improvvisamente, anche nella propria terra d’origine, il cielo dei soffitti, la prospettiva dell’abitare si trasforma in elemento estraneo, straniero, straniante. Sebbene nulla, talvolta, rispetto alla connotazione delle loro origini, in realtà, sia cambiato As Children, who remain in Face / The more their Feet retire.
Allestire sculture, fotografie, dipinti, video, interventi installativi, ambienti e disegni inediti in un palazzo del 1913 forza e mette alla prova ogni regime costruttivo. Offrendo non solo l’opportunità di attivare unità abitative in vece di spazi espositivi, ma fornendo anche ad artisti e a progetti l’esperienza di risiedere. Dalle sagome dissolte di Castelli, agli atti poetici di Oberti, alle riscritture di Alessandro Di Pietro, alle analogie di Perazzini, ai carotaggi di Ornaghi&Prestinari, alle fusioni di Michele Gabriele, ai profili di Vivacqua, la negazione, la contraddizione della quotidianità, l’un-heimlich (contrario di heimlich, da heim, casa, ma anche tranquillo, confortevole, fidato) provoca la struttura degli interni, dilatando nel tempo la definitiva chiusura al pubblico, degli ambienti dell’edificio di via Paisiello 6.
La mostra, nelle flessioni di Diego Miguel Mirabella, come nel retaggio sonoro di Boccioletti presenta una negoziazione di miti che rielaborano percezione e appropriazione di uno spazio pubblico, costruito per essere vissuto come privato (dal latino privus, proprio di un singolarità, riservato ad uno). La familiarità dell’ambiente domestico viene sfidata e il significato di casa riconsiderato. In questo modo il privato-domestico si trasforma in un alveo pubblico-ricettivo. Le unità abitative rappresentano una sfida alle istituzioni museali e al concetto di ‘white cube’, dimostrando come si possano evitare intermediari di un sistema dell’arte che non offre spazio sufficiente alle ultime generazione di artisti italiani. Una sorta di terzo spazio, di liquido di controllo che si posiziona tra il mondo dell’arte e il quotidiano, dove ogni convenzionale dualismo possa essere infranto e, allo stesso tempo, progettato.
Nei mesi che precedono l’inaugurazione di The Habit of Foreign Sky, in alcuni appartamenti si sono svolte residenze di Alessandro Di Pietro, Michele Gabriele, Enrico Boccioletti e Jonathan Vivacqua. I quattro artisti hanno posto in FuturDome il loro studio, promuovendo fra le pareti di un cantiere in continua trasformazione, un innesco di processi e pratiche che hanno offerto una domesticizzazione del lavoro artistico. Tra spazializzazione del tempo, dove la logica del luogo è dettato dall’attività, e temporalizzazione dello spazio, dove l’attività definisce il luogo. Gli artisti hanno elaborato i lavori composti appositamente per la mostra collettiva, riformulando un’architettura multidimensionale che struttura le relazioni umane in un tentativo di ri-situare forme di sopravvivenza autonoma della pratica artistica. Nutrite dall’ambiente semi-urbanizzato dei lavori di riqualificazione del palazzo.
L’entità del concetto di casa, in The Habit of a Foreign Sky, si affermerà come risultato di uno spazio transitorio temporalizzato. Estensione dell’arte contemporanea che renderà visibile un legame di familiarità con l’opera d’arte, solitamente invisibile in spazi istituzionali stranianti: una congiunzione pronta ad essere instaurata e al tempo stesso sovvertita, attraverso un nuovo rapporto di prossimità tra visitatore e architettura.