Transafricana
Se sul finire degli anni ’70 del secolo scorso la Transavanguardia proponeva modelli di superamento alla sterilità delle neoavanaguardie ormai consumate su temi iperconcettuali, all’inizio di questi anni gli artisti di Transafricana propongono modelli alternativi, di recupero del sentimento del reale, della vita, rifiutando la corsa verso la globalizzazione estetica che pervade ormai tutta l’arte occidentale.
Comunicato stampa
Fondazione 107 presenta “TRANSAFRICANA” a cura di Achille Bonito Oliva.
Il titolo nasce dalla storica linea ferroviaria che taglia longitudinalmente l’Africa e dal desiderio di offrire un’arte “di attraversamento” così come la linea transafricana mette in comunicazione popolazioni tra loro eterogenee.
I 6 artisti africani selezionati sono:
• Esther Mahlangu – Sud Africa pittrice e scultrice
• George Lilanga – Tanzania pittore e scultore
• Seni Camara – Senegal scultrice
• Mikidadi Bush – Tanzania pittore e scultore
• Kivuthi Mbuno – Kenya pittore e scultore
• Peter Wanjau – Kenya pittore e scultore
ognuno di loro vive ed opera nel paese di origine.
Se sul finire degli anni ’70 del secolo scorso la Transavanguardia proponeva modelli di superamento alla sterilità delle neoavanaguardie ormai consumate su temi iperconcettuali, all’inizio di questi anni gli artisti di Transafricana propongono modelli alternativi, di recupero del sentimento del reale, della vita, rifiutando la corsa verso la globalizzazione estetica che pervade ormai tutta l’arte occidentale.
Come un grande pachiderma addormentato, l’Africa si risveglia da un sonno ancestrale e irrompe con grande forza ed energia nella storia dell’arte contemporanea internazionale, rivalutando la magia della vita e la sacralità dell’arte.
Citando Paul Klee, Achille Bonito Oliva afferma che “l’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”. Progetto e casualità creativa si intrecciano simultaneamente nell’opera, portata a bilanciare con la complessità dell’arte l’insufficienza di una realtà schematica e riduttiva. L’arte procura stordimento e nello stesso tempo conoscenza, una perdita di senso ed anche un suo accrescimento, tramite il disorientamento di una pratica che, per definizione, tende a ribaltare la comunicazione sociale, posta normalmente sotto il segno dello scambio unilaterale ed economico.
Sulla base di questo assioma il curatore ha scelto i 6 artisti provenienti dal continente più antico, l’Africa, ognuno di loro opera all’interno di una consapevolezza culturale, fortemente ancorato alle sue radici ed utilizza un linguaggio fatto di segni che lo stesso artista conosce molto bene e pertanto non cerca di domarlo, semmai di assecondarlo secondo procedimenti che implicano l’idea di progetto e di scelta. Il risultato invece viene lasciato ai suoi esiti liberi, fuori da qualsiasi attesa o preveggenza. Non è infatti l’artista ad essere preveggente, ma il linguaggio che cova dentro di sé immagini e risultati inusitati. L’artista conosce la tecnica della sopraffazione attiva del linguaggio che si basa sullo stordimento dei procedimenti creativi, abbassamento automatico delle tecniche compositive.
E’ questa la differenza tra arte africana e occidentale.
L’arte africana prima di quella contemporanea occidentale si è affrancata dalle servitù contenutistiche e cerca sempre il movimento della forma capace di trasfigurare ogni tema e portare sulla soglia del linguaggio ogni impito e slancio. Il linguaggio diventa il filtro attraverso cui passano segni, simboli e significati che vengono come vivificati e nello stesso tempo rielaborati nel passaggio della forma.
L’arte in questo senso trova il valore della spiritualità in se stessa, in quanto trasfigura ogni dettato visivo in un segno nuovo capace di dare durata e fissità esemplare all’istante e al transeunte. L’arte è sacra perché realizza il miracolo di dare durata all’impossibile durata della vita.
L’artista africano è dunque artefice, opera sui materiali depositati dentro la sua coscienza, nel magma della sua sensibilità che affronta la prova elaborata dell’opera, del risultato compiuto, il solo capace di garantire e di garantirgli lo statuto di demiurgo.
Esther Mahlangu
Nata a Middelburg, Sud Africa nel 1935.
E’ stata scoperta da Jean-Hubert Martin, allora direttore del Centre Pompidou invitandola nel 1989 alla mostra ormai epocale “Magiciens de la Terre”.
L’artista trasferisce i suoi temi pittorici dai muri delle case dei villaggi Ndebele su tele di grande dimensione o su oggetti di uso quotidiano. Tra le sue opere più significative, la decorazione della facciata del palazzo BMW insieme ad artisti come Andy Warhol e l’affresco alla Biennale di Lione con Sol Lewitt.
I suoi dipinti non sono astratti ma puramente decorativi e gli elementi che si trovano all’interno del dipinto non sono altro che stilizzazioni di motivi presi a prestito dal reale (vedi per esempio la lametta da barba) che molto spesso raccontano storie di vita del villaggio Ndebele.
I suoi dipinti sono stati anche trasferiti su oggetti di uso comune quali le auto BMW, la Fiat 500 e le decorazioni sulle code degli aerei della British Airways in occasione dei Campionati del Mondo di calcio svoltisi in Sud Africa nel 2010 di cui Esther Mahlangu era testimonial.
George Lilanga
Nato a Masasi, Tanzania nel 1934. Morto a Dar Es Salam, Tanzania nel 2005.
L’artista proviene dalla grande tradizione della scultura Makonde.
Anche lui scoperto da Jean-Hubert Martin è stato protagonista della mostra “Magiciens de la Terre”.
E’ la felicità, il segreto vero della pittura di Lilanga: una pittura infinitamente ripetitiva che però non si ripete mai, fatta di stesure piatte e tuttavia mai superficiale, priva di centro e volta a espandersi illimitatamente in tutte le direzioni. Lilanga racconta la storia della sua vita trascorsa in un villaggio nel sud della Tanzania, immerso in storie di shetani e stregoni, di diavoli e di magia. Gli shetani (spiritelli dispettosi e malevoli, più che diabolici presenti soprattutto intorno a Zanzibar, lungo la costa sud-orientale della Tanzania e del Mozambico) si confondono e si mescolano con la vita degli umani, Lilanga li dipinge per esorcizzarli.
Seni Camara
Nata a Bigogna, nella Regione della Casamance, Senegal nel 1945.
Seni Camara è una scultrice, plasma la terracotta che successivamente cuoce in forni all’aperto. Le sue sculture parlano di famiglia, vista attraverso gli occhi di un bambino. E’ una scultura asessuata, le forme plasmate dei genitori sono unite sopra i fianchi e non sono presenti organi sessuali. Madre, padre e bambini – i corpi si mescolano in una confusione di membra. Ognuno si tocca allegramente, ci si abbraccia, ci si stringe, ci si annida. Il tema predominante di Seni Camara è quello di un amichevole affetto.
Anche lei ha partecipato alla mostra al Centre Pompidour “Magiciens de la Terre”.
Mikidadi Bush
Nato in Tanzania nel 1957.
E’ stato il vincitore della seconda edizione della Biennale di Malindi.
La sua pittura tratta temi antichi, temi eterni come l’ignoto, il magico, il sotterraneo, il tribale, li tratta con la stessa modernità con cui i grandi artisti occidentali del XX° secolo hanno trattato la bellezza, il dolore, la morte, il desiderio di eternità.
I temi del quotidiano si intrecciano con la cultura animista in visioni che ci immergono in atmosfere oniriche e surreali.
Kivuthi Mbuno
Nato in Kenya nel 1947.
Ci sono modi molto diversi per parlare degli animali e di farli parlare: favole, miti, odi, racconti di caccia, descrizioni scientifiche, metafore, ricordi belli o brutti, proverbi. Ognuno possiede il proprio bestiario intimo, ma guardatevi bene intorno, sono sempre gli stessi animali che ricompaiono proprio come nelle favole. Tra le migliaia di specie viventi sulla terra solo poche popolano la nostra fantasia e la mettono ancora in agitazione, bestie totemiche e favolose, cariche di storie e di simboli, molto lontane dai cloni odierni.
In Africa, ogni anno, fiumi di turisti invadono parchi e riserve, macchina fotografica in pugno, e mitragliano le mandrie di bufali, le giraffe, i leoni, le gazzelle, le zebre, gli gnu…
Ricordi che verranno poi classificati negli album, cartoline strappate all’inquietudine dei tempi: la pace degli animali, il loro mistero senza tempo. Perché è la, in Africa, e soprattutto nelle grandi pianure del sud del Kenya, che si può ancora toccare con mano l’immaginario naif della creazione e della vita selvaggia, avvicinarsi senza rischi alle proprie paure e alle gioie antiche, ritrovare a grandezza naturale e ben vive, i peluche della propria infanzia.
Peter Wanjau
Nato in Kenya nel 1968.
La sua pittura è una “pittura cattiva” dal segno duro, impreciso, dai fondali anonimi: una forza dove l’idea poetica sovrasta l’esecuzione.
I temi dei suoi dipinti riguardano il sociale, il sesso, la religione, la malattia, la povertà e la politica, l’aids che attacca il mondo, la follia del calcio, un’attenzione sempre più accentuata nei confronti di una popolazione che vive le contraddizioni del sesso, della religione e della povertà.
Peter Wanjau ha partecipato alla Biennale di Venezia di Harald Szeemann nel 2001.