Vittorio Zago
La bellezza dell’intero universo sta nel suo continuo rinnovarsi, nel suo continuo evolversi in qualcosa che prima non esisteva e Vittorio Zago, con le sue opere, dimostra come il pensiero umano, tradotto in gesti artistici, possa perfettamente incarnare tale bellezza.
Comunicato stampa
La bellezza dell’intero universo sta nel suo continuo rinnovarsi, nel suo continuo evolversi in qualcosa che prima non esisteva e Vittorio Zago, con le sue opere, dimostra come il pensiero umano, tradotto in gesti artistici, possa perfettamente incarnare tale bellezza.
Nella sua arte figurativa rivela la propria natura di compositore e musicista in nome dell’estetica: in un equilibrio perfetto tra pieni e vuoti, immensi spazi vengono arricchiti di delicati dettagli.
Come le più grandi civiltà della storia nacquero da una semplicità e da una frugalità che impreziosiva anche il più piccolo dettaglio, così le sue opere partono da elementi apparentemente semplici che nascondono, in realtà, universi ancora inesplorati che solo il fruitore potrà decidere se e come indagare.
In questa sua logica dell’estetica, le opere prendono avvio da fotografie macro di dettagli di un ciclo di sue opere precedenti intitolato “Cromofobie” e dalla ruvidità del legno grezzo di una cassetta per la frutta.
La cromofobia non legata alla definizione che ne fece Batchelor di “manifestazione di purgare il colore dalla cultura, di svalutare il colore, di diminuirne la rilevanza e di negarne la complessità”, ma come esplorazione del rapporto dei due opposti, il bianco e il nero, e delle interazioni che la luce provoca generando infinite scale di grigi.
“…ecco il legno” racconta invece quello che i giapponesi, come scrive Galliano, chiamano shibumi, ovvero la sontuosità di ciò che è dimesso, come il sapore allappante di un limone o il tatto di una superficie ruvida.
A questi elementi essenziali come il bianco, il nero e il legno grezzo, l’autore aggiunge dettagli di colore, colore puro, non diluito, in una matericità che sembra prevaricare la delicatezza del supporto ma che invece si inserisce perfettamente pennellata dopo pennellata.
Il colore non ha più l’obbligo, dettato da secoli di storia dell’arte, di invadere la superficie per intero, può esibirsi discreto attirando l’attenzione di chi osserva come farebbe un solo astro in un cielo buio.
Con opere simili, Vittorio Zago, vuole continuamente spronare il fruitore ad andare oltre, cercando quel dettaglio che non salta subito all’occhio, ma che viene definito da un’attenta osservazione. In questo modo, le opere diventano la culla di una serie di relazioni nascoste, silenziose che si svelano poco alla volta.
In questo processo in continuo divenire, dallo scatto digitale alla materia corposa dell’acrilico frutto di un gesto apparentemente casuale, le opere possono considerarsi un mai finito poiché si potrebbe continuare in eterno, proprio come l’universo, a trasformare ogni singolo pezzo da digitale ad analogico, per tornare di nuovo al digitale.
E così come il pensiero umano non si ferma mai, così le opere di Vittorio Zago invitano lo spettatore ad addentrarsi nella profondità di dettagli celati.
CM