Italia Creativa. Un report che non convince
Qualche riflessione sul secondo report di Italia Creativa, commissionato a Ernst&Young e voluto da MiBACT e SIAE. Con esiti poco distanti da quelli precedenti.
Un anno fa, a gennaio, con grandi squilli di tromba venne presentato il primo rapporto Italia Creativa. Commissionato a Ernst&Young, una società di analisi che con la cultura ha veramente poco a che fare, e fortemente voluto dal Ministero della Cultura e dalla SIAE.
In occasione della pubblicazione di quel report, abbiamo segnalato alcuni dubbi circa gli scopi e sulla metodologia adottata. Rispetto al lavoro precedente nulla è cambiato: tranne per il fatto che Tv e Cinema sono confluiti insieme nel settore audiovisivo, le metodologie applicate sono le stesse. Si sa, una volta fatta una griglia di indicatori, poi basta cambiare i numeri e il nuovo report è fatto.
Dato che però questi indicatori potrebbero essere migliorati, ci si attendeva da una società come E&Y un approccio un po’ meno “standard”. Non c’è stato. E dato che società di analisi e istituzioni tra le più importanti nel settore della cultura non hanno fatto altro che cambiare dei numeri in un file excel preimpostato, non perderemo tempo a scrivere un altro articolo. Faremo copia-incolla (come loro). Ma cambiando le cifre.
Ecco a voi l’articolo del 24 gennaio 2016 pubblicato su Artribune, ma con i dati aggiornati al report 2017 (che però parla della situazione al 2015!).
UNO STUDIO SIAE ORIENTED
Cosa si intende per value gap quando si parla di cultura? Si tratta del “beneficio economico che arriva da contenuti culturali non riconosciuto ai produttori degli stessi contenuti”. Questa la definizione che ne ha fornito Filippo Sugar, presidente della SIAE (nel 2016). Di fatto, però, sembra di assistere a una battaglia di gruppi di pressione istituzionalizzata – ed è una impressione che già emergeva nel commento che abbiamo pubblicato su Artribune il 22 gennaio (2016).
Non è un caso che nel rapporto Italia Creativa si riprendano proprio le cifre, l’approccio e la terminologia adottati dal rapporto che la stessa SIAE ha commissionato a Roland Berger e che è stato diffuso nel novembre (2015). Così nelle pagine di Ernst&Young si legge: “Riprendiamo qui una definizione fornita nella prima edizione di Italia Creativa. Con l’espressione value gap si intende la remunerazione iniqua derivante dal mancato riconoscimento di una parte consistente del valore generato da alcuni intermediari tecnici, attraverso le loro piattaforme, alla filiera creativa, ideatrice e generatrice dei contenuti messi a disposizione. Il value gap è rafforzato principalmente da due tipi di asimmetria fra gli attori della filiera, che riguardano: 1 Il potere negoziale. Gli intermediari tecnici godono di una posizione dominante, derivante da una presunta “terzietà” nella messa a disposizione di contenuti prodotti da altri. Infatti, secondo la normativa vigente, essi sono liberi di operare senza sottoscrivere licenze con i detentori di diritti. 2. Le informazioni. Gli intermediari tecnici, detentori delle informazioni relative all’esercizio delle proprie attività, non rilasciano informazioni del tutto complete a chi ha la paternità dei contenuti, titolari di diritti, circa l’effettivo accesso ai contenuti da parte degli utenti. Di qui la necessità di rendere il processo di remunerazione più trasparente: il quantum e le modalità di remunerazione ad oggi a disposizione non sono ritenuti del tutto adeguati, e alcuni strumenti messi a disposizione in tal senso presentano alcuni limiti di funzionamento. A ciò si può aggiungere il tema dei regimi fiscali agevolati che caratterizzano alcuni Paesi, spesso denunciato da più attori, producendo impatti economici negativi su diversi settori. I principali beneficiari del value gap sono gli intermediari tecnici, che negli ultimi dieci anni hanno assunto modelli organizzativi e funzioni diverse”.
Quello che sfugge è tuttavia un dato macroscopico: il modello di Google, Youtube e di altri motori di fruizione culturale rappresenta il nuovo ecosistema, dal quale non si può in alcun modo prescindere.
ALCUNI DUBBI METODOLOGICI
Il rapporto presentato negli scorsi giorni alla Triennale di Milano lascia inoltre più di qualche dubbio a livello metodologico. Ad esempio, perché “la valutazione dell’impatto economico viene tradotta in due cifre: valore economico e occupati”? Non è forse un approccio esageratamente riduttivo?
Venendo a un comparto specifico, particolarmente interessante per i lettori di Artribune: secondo quale criterio si è scelto di rappresentare le economie indirette del comparto tenendo conto esclusivamente della “Vendita di Strumentazione Fotografica” e della “Vendita di Materiali da Disegno”?
Rispetto al report precedente, non mancano però note positive: oltre alle statistiche in crescita per il comparto, è da notare che nel report del 2017, c’è addirittura un box per dire che i Musei si raccontano in 140 caratteri, chissà come mai!
Un’ultima nota invece sul Cinema: accorpato all’audiovisivo, diviene logicamente il settore più importante sia per valore economico che per numero di occupati. L’impressione è che questa scelta derivi molto dalla committenza. Non si capisce per quale motivo accorpare i due settori, se poi seguono (sempre secondo il report) due filiere produttive differenti. Ovviamente nel report ci sono plausi al recente DDL legato al Cinema. E altrettanto ovviamente ci sono altre due pagine dedicate alla pirateria, che si aggiungono alle altre 15 della prefazione.
Stefano Monti
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