The Centre for the Less Good Idea si trova a Maboneng, il nuovo distretto artistico di Johannesburg, in cui si stanno spostando artisti, musicisti, designer, case di produzione video, editori. The Cool Couple ha visitato il centro fondato lo scorso novembre da William Kentridge per promuovere e supportare progetti artistici indipendenti e parlare con Bronwyn Lace, direttrice dello spazio.
Com’è nato The Centre for the Less Good Idea? C’è un motivo per cui si trova in questa zona della città?
All’inizio del 2016 William mi ha contattata, dicendo che aveva deciso di avviare una fondazione per l’arte. Non sapeva ancora che forma avrebbe avuto, ma voleva comprare uno spazio in città vicino al suo studio, nel distretto di Maboneng. Quando lo ha acquistato nel 2008, il quartiere era un’area industriale abbandonata nell’East End, caratterizzata dalla povertà e da un alto tasso di criminalità. All’inizio è sembrata una scelta insolita da parte di William, ma comprensibile se pensiamo che il suo lavoro e la sua vita, nonostante sia un artista di fama internazionale, sono sempre ruotati attorno al Sudafrica e specialmente a Johannesburg.
Poi cosa successe?
Quando, otto anni più tardi, mi ha chiesto di collaborare con lui per creare una fondazione, ci siamo interrogati sulle modalità con cui uno spazio può rispondere alle necessità di coloro che operano in campo artistico a Johannesburg. Dopo diversi mesi di ricerca e confronto con altre figure, abbiamo capito che si sarebbe trattato di The Center for the Less Good Idea: sarebbe stato uno spazio incentrato sul processo, uno spazio che avrebbe sostenuto gli artisti sia finanziariamente sia attraverso una formazione multidisciplinare. Avrebbe radunato tecnici altamente specializzati per affiancarli agli artisti, al fine di produrre lavori che non riceverebbero alcun tipo di supporto da parte degli spazi già esistenti in Sudafrica.
Maboneng sembra irriconoscibile rispetto a come lo descrivi nove anni fa. Cos’è accaduto?
Con l’acquisto del suo studio, William ha avviato un processo di riqualificazione dell’area, concretizzatosi grazie all’ingresso in scena di un giovane imprenditore che ha intravisto l’opportunità di sviluppare un quartiere per le arti. Dal 2008 a oggi, abbiamo assistito a una crescita esponenziale della zona, che è diventata una live-work-play area, concepita perché i suoi abitanti vi trascorrano la maggior parte del tempo: c’è un’alta concentrazione di creativi che vivono qui e ci sono musei, gallerie, librerie e altri tipi di attività. Tutto è cominciato con quella decisione di William.
Quali sono gli obiettivi di The Centre for the Less Good Idea? Quali i suoi tratti distintivi?
Non siamo interessati a riproporre ciò che già avviene in una galleria, in un teatro commerciale, in un ambiente museale o in un’università. La questione ruota attorno alla possibilità di lasciare che gli artisti si divertano davvero, che falliscano e provino cose che sembrano apparentemente stupide, che trovino il supporto per portare una grande idea fino alla sua realizzazione. Ciò a cui spesso non si presta attenzione è che, ai limiti di queste grandi idee, nelle loro zone periferiche, c’è moltissimo materiale interessante per una riflessione e per un confronto, come i problemi che nascono quando l’idea nella mente di un artista si scontra col mondo reale. Ogni volta che parli di questi argomenti con gli artisti, questi riconoscono che è una parte profonda del processo di generazione di un lavoro, ma allo stesso tempo è una dimensione che raramente viene riconosciuta dai luoghi deputati alla produzione artistica. Questi ultimi vogliono un prodotto facilmente consumabile.
Tutto ciò si traduce in un programma. Avete appena concluso la prima stagione. Come avete costruito il gruppo che vi ha lavorato?
La prima stagione di The Centre for The Less Good Idea aveva veramente poche regole. In un certo senso, abbiamo prosperato nel caos. Ci sono pochi elementi che riteniamo fondamentali, tra i quali il fatto che vogliamo sviluppare due stagioni, ognuna della durata di sei mesi, e che la loro forma dipende dai curatori invitati. Quando parlo di curatori, non mi riferisco solo a chi opera nelle arti visive. Come centro, siamo interessati a figure che non solo siano profondamente radicate nella loro pratica – che si tratti di coreografia, musica o arti visive – ma che abbiano dato prova di spingersi al di fuori del loro settore, avviando un autentico dialogo interdisciplinare.
Per la prima stagione i curatori sono stati quattro: William era uno di questi, sia per avviare il centro sia per seminare le sue idee in merito a “the less good ideas” e alla centralità del processo nella pratica artistica. Gli altri curatori erano: Lebogang Mashile, una scrittrice e poetessa; Dominique Gumede, direttore teatrale; Gregory Maqoma, ballerino e curatore per la danza.
Qual è il bilancio di questa prima stagione?
All’inizio eravamo in cinque in una stanza: io e i quattro curatori. Abbiamo iniziato a radunare le idee, pensando a un momento di apertura e confronto con il pubblico. Alla fine il tutto è diventato un festival di cinque giorni, che si è tenuto dal 1° al 5 marzo, preceduto da workshop e momenti di formazione che hanno coinvolto circa novanta artisti. Abbiamo prodotto sedici pièce/performance collettivamente riconosciute come meritevoli di essere finalizzate; oltre a queste, avevamo diciotto cortometraggi. Posso dire che la prima stagione ha prodotto parecchio e, inoltre, cinque delle sedici performance sono attualmente in fase di ampliamento per diventare una pièce teatrale più lunga e facilmente fruibile.
Quali materiali avete prodotto?
Il materiale prodotto non ha una forma chiara: le performance sono riconducibili alle arti visive, ma ci sono anche produzioni teatrali, danza, film… Tanti progetti erano interessanti in una prima fase, ma poi si sono sgretolati, com’è naturale che accada. Ed è questo il bello di poter provare, perché restituisce agli artisti coinvolti un importante bagaglio conoscitivo, aiutandoli a comprendere perché qualcosa funziona e qualcos’altro no, aiutandoli nell’evoluzione della loro ricerca.
Quale criterio avete impiegato per selezionare gli artisti?
Il focus per i primi due anni sono gli artisti di base a Johannesburg. Una volta che avremo compreso cosa non è negoziabile per noi come centro, allora inizieremo ad ampliare il nostro ambiente. Ma, per il momento, rimaniamo piccoli e locali.
In cosa consiste il tuo ruolo?
William mi definisce l’animatrice dello spazio e questo significa portare vita, energia, spinta e una visione, ma al tempo stesso lavorare per costruire dei network, indagando le reti già esistenti in città, che normalmente non interagirebbero con questo tipo di spazio. Si tratta di un ruolo che mi costringe a uscire e vedere quanto più mi è possibile a Johannesburg.
Cosa c’è in ballo per la prossima stagione?
Stiamo sviluppando un festival incentrato sul digitale, e questo tema è legato in parte anche al mio ruolo, perché mi occupo della gestione dei contenuti online del centro. Il sito internet è nato con la finalità di creare una piattaforma sulla quale raccogliere quanto più processo possibile: per la prima stagione abbiamo realizzato quasi trenta trailer, perché uno dei miei obiettivi come animatrice è creare l’empatia per il processo in coloro che fruiscono l’arte, non soltanto in chi la produce.
La seconda stagione si interroga su diverse questioni, tra cui la possibilità di un festival di arte performativa digitale che non sia dominato da schermi. Stiamo cercando di costruire pupazzi digitali per farli interagire con gli artisti; ci saranno ingegneri, programmatori, esperti di robotica e artigiani che realizzano macchinari a partire dai rottami. Questo è quello che accadrà nella seconda stagione, che partirà a ottobre. Ci divertiremo un sacco!
Qual è la situazione del panorama artistico in Sudafrica? La nascita di questo centro fa intuire che le logiche economiche abbiano un peso notevole nel plasmare questo scenario.
In Sudafrica le grandi gallerie dominano la conversazione ben oltre le fiere d’arte, entrando nei meccanismi di biennali e altri eventi in cui pagano per inserire degli artisti. Le istituzioni non si oppongono perché sono sempre alla ricerca di fondi. The Centre for The Less Good Idea è un momento di respiro per gli artisti: offre una sorta di energia per insistere con cose che vengono rifiutate dal punto di vista commerciale.
Come vi rapportate con eventuali finanziatori?
Abbiamo un lusso incredibile: abbiamo un artista di fama internazionale come William Kentridge, il quale è nella posizione di fare ciò che vuole. Le grandi gallerie non possono dettargli condizioni. Quando William ha realizzato che aveva la capacità di creare questo spazio, si è impegnato economicamente, acquistandolo e finanziandolo. Non vuole cercare fondi, perché non appena subentrano altri partner, possono influenzare la natura di questo spazio.
Ci arriveremo, ma per ora dobbiamo scoprirlo da soli. Se, in futuro, qualcuno mostrerà interesse a finanziare il centro, gli presenteremo le nostre condizioni. William, inoltre, ha aperto il suo studio e così facendo i programmatori, gli artigiani, gli ingegneri e gli editori che lavorano con lui alle sue produzioni – e molti di loro non sono sudafricani, ma vivono qui per via di William o si trasferiscono qui per brevi periodi di tempo – sono a disposizione degli artisti che lavorano in questo spazio. Quindi, gli artisti che lavorano qui sono aiutati da persone che si occupano di risolvere i problemi dietro alle idee e alle opere di William. E questo è inestimabile. Non so quanti altri artisti al mondo nella sua posizione si comportino così. Mi auguro che ne nasca un trend.
– The Cool Couple
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati