Biennial correctness. L’editoriale di Renato Barilli
In virtù di una “correttezza” diventata ormai imperante, si è persa la capacità di presentare alla Biennale di Venezia posizioni curatoriali nette e precise. È questo il succo del pensiero di Renato Barilli. Intanto queste sono le ultime ore per vedere l’edizione 2019.
Ritornando sul tema della Biennale di Venezia, ripeto alcune mie osservazioni, nella speranza che un prossimo Presidente le possa accogliere. In genere, ritengo che si debba ritrovare una saggezza “antica” nel distinguere tra il ruolo del Padiglione centrale ai Giardini e il magnifico spazio consentito dalle Corderie. Voglio sperare che i prossimi direttori siano capaci di inquadrare filoni portanti della ricerca in atto, e loro rappresentanti, da porre in bella evidenza proprio nel Padiglione centrale, come si faceva in passato, finché la “biennial correctness” di Baratta ha istituzionalizzato il ricorso a curatori incapaci di idee e di scelte prioritarie, pronti invece a spalmare delle scelte indifferenziate nell’una e nell’altra sede.
Nell’attuale edizione capita di vedere una protagonista di lunga data come la tedesca Rosemarie Trockel esporre in mezzo a dei giovani semisconosciuti. La democrazia è giusta nelle elezioni politiche, non nelle manifestazioni artistiche, che devono essere selettive, gerarchiche, per dare una mano ai visitatori. Funesta poi è la cancellazione di un ruolo distinto per le Corderie, che sarebbero da lasciare a partecipanti più giovani da mettere alla prova. Io sarò sempre un nostalgico dell’Aperto, alla cui selezione ho avuto la possibilità di partecipare nel 1990. Ho poi trovato particolarmente sciagurata la decisione presa dal direttore di quest’anno di consentire a ogni partecipante di comparire due volte, nell’uno e nell’altro spazio, contribuendo a confondere le idee ai poveri visitatori, chiamati a cucire volti magari molto diversi tra loro col variare dei mezzi usati.
“La democrazia è giusta nelle elezioni politiche, non nelle manifestazioni artistiche, che devono essere selettive, gerarchiche, per dare una mano ai visitatori”.
Tra questi inviti a ritornare a giusti canoni del passato c’è pure quello che la partecipazione italiana venga riportata nel Padiglione centrale, occupandone un’ala, diciamo circa un terzo, fra l’altro così sottraendolo all’inconcludente campionatura senza filo conduttore del “curator” di turno. Anche in questo caso parlo in nome di una mia personale esperienza, quando nel 1972 (allora non c’erano le Corderie) il Padiglione centrale ospitò una bella mostra di Carandente sulla scultura internazionale e, per l’Italia, la proposta dialettica Opera o comportamento, concepita da Francesco Arcangeli, che affidò a me la cura del secondo aspetto.
Qualche riflessione merita pure la sovrabbondanza dei padiglioni stranieri, ormai nel numero quasi pareggiati alle nazioni dell’ONU, con presenze per lo più di scarsa incidenza. E anche i Paesi maggiori talvolta, come in questa edizione, deludono. Anche qui mi pare si possa rilanciare un accorgimento già in uso: un direttore di larga visione e forti convincimenti dovrebbe avere il potere di dialogare coi responsabili dei padiglioni stranieri in modo da ottenere da loro partecipazioni più motivate e significative.
‒ Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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