Dagli archivi di Alessandra Mammì: appunti e foto da una quarantena
Effetti collaterali da virus. La critica e giornalista Alessandra Mammì racconta il proprio isolamento forzato. A partire da due foto e da un ricordo…
Effetti collaterali di un virus.
L’ultimo bagliore di socialità l’ho avuto mercoledì 4 marzo, giorno che ora mi sembra lontanissimo. Avevo preso la metro Bologna/ Cavour e raggiunto Palazzo delle Esposizioni per un caffè con Cesare Pietroiusti a parlar di Roma contemporanea perché avevo in testa di farne una mappa ragionata per “D repubblica”. Una vita fa, appunto. Con l’occasione Cesare mi aveva dato il libro “Un certo numero di cose- 1955-2019” pubblicato per la sua mostra al Mambo che si era chiusa il 6 gennaio.
Poi, in un pugno di ore a chiudere è ogni altra cosa chiude: i caffè, i musei, le librerie e anche noi, infine, chiusi in casa. Ci sono i libri per fortuna, a cominciare da quello, l ’ultimo libro libero che ho ancora in borsa. Una particolare autobiografia d’artista, un memoir costruito su tracce, indizi che rimandano ad altro e come flash illuminano e fotografano angoli della nostra storia spesso rimasti in ombra.
LE FOTO E LE COINCIDENZE
Lo sfoglio. Mi colpisce a pag. 9 una foto di Cesare bambino con un Babbo Natale. Lui la commenta così: «Dicembre 1956. Foto scattata credo a Piazza Navona con ogni probabilità opera di un fotografo professionista sodale con quel Babbo Natale troppo giovane dalla barba eccessiva e dall’improbabile frangetta bianca che gli copre gli occhi. ….Dall’espressione lui sembra giustificarsi di qualcosa, forse del fatto che non riesce a rendermi allegro, io d’altra parte sono terrorizzato e sembro chiedere spiegazioni o forse aiuto…” Il giorno dopo o quello dopo ancora forse (il tempo in questa quarantena si fonde in tutt’uno) nell’ossessivo riordino che mi colpisce come un bisogno compulsivo di mappare il territorio e preparare al meglio la tana del letargo, incontro un album scorticato con alcune vecchie foto.
Ce n’è una che mi immortala con il medesimo Babbo Natale, con il medesimo sguardo terrorizzato, e con il medesimo cappottino doppiopetto più cuffietta indossati dal piccolo Cesare, tipico outfit invernale dei bimbetti romani.
IL CASO NON ESISTE?
Il caso non esiste, penso. E mi getto a leggere il libro. Non è solo un memoir. È un libro generazionale dei nati nella Roma, metà anni Cinquanta, che poi cresciuti, con diversi luoghi, ruoli, strade hanno confluito nella grande/ piccola comunità dell’arte.
La strada di Pietroiusti non è la mia, ma in molti punti ha coinciso creando strani cortocircuiti.
Non ci siamo mai incontrati, né frequentati in giovinezza, ma una di quelle esperienze fondamentali che mi convinsero ad abbandonare la ricerca sulle influenze fiamminghe in Lorenzo Lotto attraverso lo studio dei tappeti ( me l’aveva assegnata Augusto Gentili un docente di iconologia, allegro e intelligente che adoravamo in molti nelle aule della Sapienza anni Settanta) per studiare un’arte più vicina a me, furono alcune cose viste e sentite da Jarkatror lo studio/ laboratorio, di Sergio Lombardo Anna Homberg, con sede nel cuore di Roma, a due passi dalla casa dove abitavo.
Di tutte non dimentico la mostra di Piero Manzoni, al tempo non così celebre, che solo adesso con questo libro in mano apprendo essere stata portata da Milano a Roma nel bagagliaio della 128 di Cesare che in quello spazio sperimentale stava costruendo il suo sistema di pensiero.
DA PIETROIUSTI AD ALIGHIERO
Continuo a leggere. 1988: Bar di Radda in Chianti. Uno dei lavori che mi ha più colpito è l’interno della porta di un gabinetto incisa di messaggi, graffiti per lo più osceni che Cesare fotografa riproduce e incolla sull’esterno, per confondere l’ordine fra il mondo intimo e quello sociale, per creare disturbo e per obbedire alla “capacità di costruire una visione a partire dallo strabismo estremo di uno sguardo che guarda un occhio fuori e uno dentro”, scrive.
Sono andata a cercare nel caos della mia bibliotechina quel catalogo “Da zero all’infinito” con il lavoro di Radda in Chianti, voluto dal mitico Luciano Pistoi al Castello di Volpaia. Ne ho trovato un altro dello stesso anno dove Boetti espone con Pietroiusti.
ARCA –1989 pag.77.
«Daniela De Dominicis: Che valore ha per te, Alighiero, partecipare a una mostra con Cesare Pietroiusti? . Alighiero Boetti: Vedi, Cesare rappresenta il contrario di quello che io penso dell’artista e dell’arte, per me è un’occasione per spiegare tutto ciò che non mi convince del suo lavoro e di quello del gruppo a cui appartiene……» e Cesare risponde in un discutere che va avanti sei pagine.
Sergio Lombardo, Luciano Pistoi, Sergio Casoli… i flash
Artisti, attivisti, militanti, simpatizzanti. Li abbiamo studiati abbastanza, ricordati abbastanza, capiti abbastanza?
Me lo chiedo mentre in queste tracce e indizi che Pietroiusti lancia come Pollicino, galleggiano le immagini di una comunità che oggi forse ha dimenticato di esserlo. Quando? Probabilmente a pag. 107, lì dove si legge nella scheda del lavoro “Venerdì 17” , 1984:
«I primi anni ’80 sono caratterizzati, come è noto, dal ritorno alla specificità dell’oggetto-opera (la pittura), al prestigio dello spazio espositivo deputato (galleria-museo), alla valorizzazione economica (il mercato): Il piccolo gruppo Jarkatror era in questo contesto decisamente minoritario e piuttosto isolato…»
Eppure… l’ultimo giorno di socialità non parlavo con un artista isolato ma con il presidente del CDA del Palaexpo, una delle aziende culturali più importanti della capitale. E non mi sfuggiva l’eccezionalità del doppio incarico.
UN CERTO NUMERO DI COSE
Eppure… il libro che ho tra le mani è pubblicato da Nero che nasce per sfida alla fine del 2004 come una free press di 30mila copie battezzata da uno degli unici lavori di “pittura” di Pietroiusti (vedi pag.189) .
Eppure uno di quei ragazzi del 2004 che fondarono NERO è Luca Lo Pinto che in qualità di neo-direttore sta per fare del Macro “Un museo d’immaginazione preventiva”, articolato e organizzato come una rivista, che aprirà in autunno quando, se ci saremo risvegliati dall’incubo, ne avremo bisogno di immaginazione perché chissà come ci sveglieremo, chissà cosa saremo …
Ma qualsiasi cosa saremo varrebbe la pena di tenere a mente “Un certo numero di cose” nate in una comunità dell’arte che in qualche modo esiste, se quelle due foto scattate più di sessant’anni fa, probabilmente lo stesso giorno, nello stesso luogo si sono ritrovate qui, proprio su questo sito.
– Alessandra Mammì
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