Un museo decoloniale e multispecie. Parla Andrea Viliani, neodirettore del Museo delle Civiltà
De-colonialismo, intersezionalità e pluriversalità sono gli obiettivi che l’istituzione diretta da Andrea Viliani si pone da qui al prossimo futuro, per una rilettura delle proprie collezioni in chiave contemporanea e in linea con le urgenze dell’oggi. Ecco cosa ci ha raccontato Viliani in questa lunga intervista
L’appuntamento è fissato per il 26 ottobre 2022, giorno in cui verrà presentato il riallestimento del Museo delle Civiltà di Roma diretto da Andrea Viliani: si tratta di piccoli ma puntuali interventi, d’attenzione filologica e pedagogica, affinché il complesso museale “non risulti un luogo di mostra ma di riflessione”. Il Museo delle Civiltà sta nel quartiere EUR ma quali edifici riguarda? Comprende il Museo delle arti e tradizioni popolari Lamberto Loria, Il Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini, il Museo di arte orientale Giuseppe Tucci e le collezioni dell’ex Museo Coloniale e dell’ISPRA-Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, erede del Real Servizio Geologico d’Italia. Insomma, le collezioni del Museo sono vastissime, distribuendosi sull’enorme superficie di 80.000 metri quadri. Per quanto riguarda l’ISPRA, il 30 novembre sarà una data importante: è una delle più importanti collezioni nazionali, con 150.000 opere e oggetti, reperti animali, fossili, litomineralogici, e verrà finalmente restituita alla fruizione pubblica, dopo 30 anni di chiusura. Di questo e molto altro abbiamo parlato con il direttore Andrea Viliani.
Il Museo delle Civiltà di Roma raccoglie numerose collezioni, tra reperti preistorico-etnografici, documenti di tradizioni popolari italiane, opere d’arte africana, americana, asiatica e delle Isole del Pacifico.
Facciamo un po’ di “storia”. Il Museo delle Civiltà di Roma è un museo recente, dotato dal 2016 di autonomia speciale. Le collezioni sono però composte da circa 2.000.000 fra opere e documenti, distribuiti su circa 80.000 mq di sale espositive e depositi. Il Museo delle Civiltà (termine non a caso declinato al plurale) è innanzitutto un museo “di musei” e “sui musei”, in cui sono confluite, dalla seconda metà del XIX secolo ad oggi, le collezioni di diverse istituzioni, riunite nella seconda metà del XX secolo presso l’attuale, duplice sede del museo, composta dal Palazzo delle Scienze e dal Palazzo delle Tradizioni Popolari, entrambi edificati per l’Esposizione Universale di Roma (E.U.R.) del 1942. La straordinaria articolazione e stratificazione delle opere e dei documenti che il museo conserva – dalla preistoria alla geo-paleontologia e lito-mineralogia, dalle arti e culture extraeuropee alle testimonianze della storia coloniale italiana, fino alle arti e tradizioni popolari italiane – è basata sulla coesistenza fra differenti mezzi espressivi, epoche e provenienze, che hanno però un ricorrente fondamento ideologico nella cultura positivista, classificatoria, eurocentrica e coloniale del XIX e XX secolo.
Come intendi valorizzare un così articolato patrimonio, per altro ancora poco conosciuto dagli stessi cittadini romani?
L’urgenza posta dalla tipologia di queste collezioni, e la necessità di affrontare un rinnovamento dei suoi statuti, sono le ragioni principali che richiedono al Museo delle Civiltà di assumersi e attuare una riflessione sistemica sulle sue identità e sulle sue funzioni, interrogandosi innanzitutto se e, nel caso, come possa operare un museo antropologico contemporaneo.
Insomma, cambiare tutto?
Beh, avviare questa riflessione non significa destituire il museo, ma ristabilirlo su nuove, possibili fondamenta, che comportano l’adozione di un profilo non solo culturale ma anche politico. Il Museo delle Civiltà è, potenzialmente e auspico operativamente, un museo in cui valorizzare le collezioni significa sostenere il formularsi e riformularsi della pubblica opinione su di esse, uno spazio-tempo discorsivo, critico e autocritico, in cui condividere con il massimo numero di cittadine e cittadini, non solo italiani, una riflessione, innescata da queste specifiche collezioni, su tematiche e prospettive fra le più necessarie e urgenti del nostro tempo. Per questo il Museo delle Civiltà è quindi, intrinsecamente, un museo contemporaneo.
Quali pensi siano le potenzialità e le difficoltà proprie di un’istituzione come il Museo delle Civiltà?
“Potenzialità” è la parola che ho ascoltato di più in questi mesi in relazione al museo, sempre abbinata alla sua sorella gemella “difficoltà”. Una tensione fra opposti che sembra mirare, più o meno consapevolmente, alla stasi e al mantenimento dello status quo. Per reagire a questo rischio occorrerebbe favorire una percezione unitaria seppur multidisciplinare, e quindi intimamente dinamica, delle collezioni del Museo delle Civiltà, che oggi vengono percepite invece da un lato come un caleidoscopio non coerente e non coeso, e dall’altro come una monolitica, statica e quindi intoccabile dimostrazione dello status quo delle differenti discipline a cui le singole collezioni afferiscono. Nel contesto del “Grande Progetto Museo delle Civiltà”, sostenuto dal Ministero della Cultura, il Museo delle Civiltà darà anche per questo avvio nel prossimo quadriennio a numerosi cantieri, non solo allestitivi e grafici ma anche metodologici, che porteranno gradualmente alla riapertura di tutte le sezioni del museo – molte delle quali non ancora pienamente attive, o chiuse da decenni.
Cosa verrà fatto, quindi, nell’ambito di questo “Grande Progetto”?
Sarà l’occasione, di per sé storica, di operare una serie di riaperture e riallestimenti (come quello delle collezioni di arti e culture asiatiche) e contestualmente una riflessione compartecipata sull’opportunità di ripensare, almeno secondo gli usuali formati museali, alcune sezioni, per esempio quelle relative ai materiali organici o alle collezioni di provenienza coloniale. Al termine di questo processo, il Museo delle Civiltà non sarà più suddiviso e frammentato in singole istituzioni museali indipendenti, ma unito e congiunto in nuclei collezionistici, archivistici e di ricerca fra loro interdipendenti, e soprattutto non sarà più solo un museo.
E allora cosa diventerà?
Come sta emergendo da una molteplicità di ricerche teoriche e di pratiche artistiche e intellettuali, sia a livello nazionale che internazionale, i musei antropologici stanno diventando un caso-studio nella museologia contemporanea, in quanto hanno separato e classificato in modo disuguale intere culture, attraverso l’invenzione di categorie come quelle del “primitivo” e dell’“alterità”, funzionali alle narrazioni eurocentriche e, più in generale, occidentali, divenendo produttori di conoscenze dominanti, fuorvianti ed escludenti.
Come fare per cambiare o eliminare questo tipo di classificazioni?
Per non essere un museo “tossico” – in cui la violenza che alcuni membri del pubblico non percepiscono è, invece, chiaramente percepibile e quindi percepita da parte di alcuni membri di quello stesso pubblico – il museo antropologico contemporaneo può provare a fare alcune cose “basiche”: mettersi in discussione, senza temere di poter essere considerato di fatto un formato istituzionale abrogabile; porre al centro della sua azione un accesso libero, esteso e gratuito ai suoi archivi e un sostegno plurale a ricerche e pratiche che riscrivano la ‘biografia’ di ogni singola sua opera e documento, a partire dalla ricostruzione inflessibile delle provenienze; rinunciare a una politica delle “buone intenzioni”, ovvero a progetti che non affrontano le storie e le dinamiche su cui le collezioni del museo sono fondate, ma che esprimono un atteggiamento ancora unilaterale che non fa altro che perpetuare una storia e una dinamica di rimozione; distinguere fra le opzioni a cui si richiamano i differenti termini e ambiti di azione “post-coloniale”, “de-coloniale” e “anti-coloniale”; connettere ricerca e pedagogia per accogliere e declinare su questa base una posizionalità, intersezionalità e pluriversalità consapevoli, prendendo posizione senza temere i rischi che ciò potrebbe comportare nella trasformazione, o addirittura appunto abrogazione del museo, almeno per come lo conosciamo.
Come vengono declinate queste riflessioni nella progettualità del Museo delle Civiltà?
Anche se il Museo delle Civiltà già esiste da un secolo e mezzo, seppur con nomi diversi (e spesso “onomastici” come rivelano le precedenti dediche ai suoi “padri fondatori”, fra cui Luigi Pigorini, Giuseppe Tucci e Lamberto Loria), è opportuno provare a esperirlo come ancora in formazione, smettendo di considerarlo un custode di risposte per iniziare a immaginarlo come un catalizzatore di domande. Magari sostituendovi il concetto di “patrimonio culturale” (che insiste sul principio esclusivo della proprietà) con la prassi di quello che vorrei definire “matrimonio culturale”.
Da patrimonio culturale a matrimonio culturale? Ovvero?
Ovvero una serie di azioni interconnesse e inclusive che prevedono pratiche di cura, assunzione di responsabilità, condivisione e restituzione. Per questo il programma proposto insieme a tante altre coautrici e coautori per il prossimo quadriennio interpreta il Museo delle Civiltà non come l’istituzione autorevole con cui in genere identifichiamo il “museo”, ma come un centro di ricerca in corso, affidato a soggetti interni ed esterni al museo in grado di svolgervi una sperimentazione inter-disciplinare a lungo termine; come un cantiere epistemico e pedagogico; come un osservatorio/laboratorio istituzionale e procedurale davvero plurale, più di ogni altro museo “specializzato”. In questa fase di cambiamento occorre partire da un’attenzione all’utilizzo accurato delle parole.
Ad esempio?
Ad esempio dismetterne alcune (molte), come la parola “orientale” o l’abbinamento fra le parole “preistoria” ed “etnografia”, e ripartire da nuovi alfabeti e nuove sintassi di ricerca istituzionale.
Quello che, fino al 2016, era conosciuto come “Museo Pigorini” è stato essenziale per la formazione di generazioni di romani, come si potrebbe rilanciare questa funzione didattico-educativa?
Il “Pigorini” – dal nome del suo primo direttore, l’archeologo Luigi Pigorini che nel 1876 inaugurò presso il Collegio Romano il “Regio Museo Nazionale Preistorico-Etnografico” – è stato per oltre un secolo e mezzo un museo principalmente didattico che molti visitatori, in particolare romani, ricordano in effetti come il primo museo che hanno visitato quando erano bambini. In moltissimi casi, però, quegli stessi bambini non sono mai tornati a visitarlo, una volta diventati adulti. Sarebbe importante amplificare questa funzione pedagogica, e quindi la vocazione di istituzione volta all’apprendimento, ma reinterpretandola come un’esperienza critica del passato, che agisca in funzione della formazione di una coscienza del presente e dell’assunzione di responsabilità verso il futuro. È giunto il momento, per questo museo e il suo pubblico, di passare all’età adulta e di affrontare le conseguenze di un processo inevitabile di crescita, anche senza rinunciare a condividere spazi-tempi di gioco, di scoperta, di sorpresa, di meraviglia?
I vostri “principali” visitatori sono le scolaresche. Come si approcciano alle collezioni?
Molti dei nostri visitatori vengono con le scuole a visitare le collezioni preistoriche. La preistoria non ci racconta solo come gli esseri umani si sono evoluti, ma anche come si sono già estinti, e la cosiddetta “evoluzione” non è una storia lineare e progressiva ma un intreccio complesso di continui adattamenti e trasformazioni, migrazioni, contatti, competizioni, crisi. Per questo il nuovo allestimento delle collezioni preistoriche, che presenteremo il 26 ottobre, si riconfigura come l’avventuroso racconto dell’Antropocene (ovvero dell’”epoca degli esseri umani” che hanno co-abitato per millenni la Terra) che oggi – di fronte a crescenti rischi ambientali, climatici, pandemici indotti in molti casi proprio dagli esseri umani – potrebbe essere giunta al suo termine. Andrà davvero così? La risposta sta a quegli stessi bambini che visitano queste collezioni con le scuole, le cui decisioni nella vita di tutti i giorni determineranno da qui in avanti come questa storia andrà a finire: per riflettere su questi scenari la sezione delle collezioni preistoriche inizierà con un’“ominazione scientifica” che traccia i processi che hanno condotto all’attuale specie umana ma, proprio poiché questa storia (che anche per questo non chiameremo più “preistoria”) sta continuando con noi, la sezione terminerà con un’“ominazione immaginifica” che affiderà a vari autori e alla relazione con i visitatori del museo la possibilità di immaginare i possibili sviluppi della specie umana, rendendocene co-creatori.
Quale sarà il budget di cui avrete bisogno per attuare le innovazioni interne proposte nel programma del prossimo quadriennio in uno spazio così sconfinato?
Il budget annuale di funzionamento del museo copre per lo più le spese ordinarie, e quindi deve essere integrato da fondi speciali, che il museo predispone e richiede agli organi competenti del Ministero della Cultura in base a precisi progetti, volti anche al riallestimento delle collezioni. Fondamentali in questo momento i fondi PNRR, volti all’accessibilità non solo fisica ma anche cognitiva, e i fondi per i progetti connessi alla sicurezza e all’impiantistica (considerevoli se pensiamo agli 80.000 mq delle due sedi del Museo delle Civiltà), nonché i fondi da bandi e quelli concessi da sponsor e da operatori del terzo settore, a cui stiamo lavorando, come i fondi sulla piattaforma ArtBonus.
Come sarà composto il vostro team?
Il team interno del museo, sia a livello di ricerca scientifica che di restauro, è formato da funzionarie e funzionari che dedicano anni, a volte decenni, a processi basati su una paziente ricerca, svolta in collaborazione con altre istituzioni museali e accademiche nazionali e internazionali. Nel prossimo quadriennio è previsto un rafforzamento del team di comunicazione, di quello per la catalogazione e gli studi sulla provenienza finalizzati all’avvio di un’azione fattuale di restituzioni, e per la concezione e produzione di progetti basati sulla ricerca di lungo termine affidata ad artisti, operanti in varie discipline, e curatori.
Quale sarà il rapporto con il quartiere e con gli altri attrattori dell’EUR? E quale sarà la strategia per convincere le persone a spostarsi dal centro di Roma?
Semplice, o quasi… All’EUR, e a Roma-sud, si arriva con la Metro B (linea blu) in circa 20 minuti dalla Stazione Termini, e lo stesso tempo ci si impiega dall’aeroporto di Fiumicino. Quindi la percezione che si tratti di un quartiere periferico è un argomento che comunicazione e marketing potrebbero facilmente ribaltare in una percezione di prossimità. Inoltre, arrivati all’EUR, si può visitare un vero e proprio hub culturale costituito, oltre che dal Museo delle Civiltà, da istituzioni quali, fra le altre, il Palazzo della Civiltà Italiana (il cosiddetto “Colosseo Quadrato”), sede internazionale degli archivi Fendi e del loro programma espositivo, dal Planetario, dall’Archivio di Stato, da due centri congressi che sono anche due magnificenti architetture del XX e XXI secolo (rispettivamente di Adalberto Libera e di Massimiliano Fuksas) e, appena sarà riaperto, dal Museo della Civiltà Romana. Inoltre qui si tengono fiere importanti come, fra le altre, Più libri più liberi. Per molti aspetti, inoltre, Roma ha due forme di retorica architettonica davvero universali, che meriterebbero di essere studiate e visitate entrambe: quella barocca e quella fascista. Per quanto molto diverse, entrambe costituiscono il DNA di una città che si è immaginata caput mundi e che per questo ha sempre declinato ai massimi livelli le prospettive del potere e, quindi, della propaganda (fide e fascista). Non a caso anche l’EUR, avamposto dell’impero coloniale italiano, ha il suo Colosseo, sebbene quadrato e non circolare. Insomma, per comprendere Roma spostarsi dal centro all’EUR non dovrebbe essere un’esperienza accessoria, ma complementare, su cui stiamo avviando attività pedagogiche specifiche in collaborazione con altre istituzioni, non solo operanti all’EUR.
Cercherai di sconfinare nell’arte contemporanea, la tua specializzazione, o starai dentro al recinto delle discipline archeologiche e antropologiche cui afferiscono le collezioni del Museo delle Civiltà?
Le collezioni di un museo andrebbero sempre messe in relazione con le istanze più radicali espresse dalla contemporaneità, anche per connettere le fonti storico-critiche conservate nel museo, per altro non sempre del tutto accessibili al pubblico, ed elementi a cui è imprescindibile riportarle. Nel caso del Museo delle Civiltà ciò significa riconnetterne collezioni, archivi, metodologie di ricerca e pedagogiche a, per esempio, scenari ecologici o, ancora, ai processi di de-colonizzazione delle infrastrutture istituzionali. Le collezioni di carattere scientifico – per esempio quelle di geo-paleontologia e lito-mineralogia che saranno progressivamente presentate, dal 30 novembre, al Museo delle Civiltà grazie alla collaborazione con ISPRA-Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, erede del Real Servizio Geologico d’Italia – saranno la premessa di un museo multispecie, ovvero che, documentando le forme di esistenza e l’azione creativa anche delle specie animali, minerali e vegetali, trae da esse sollecitazioni che contribuiscono a reimpostare il nostro rapporto con l’ecosistema in cui anche noi esseri umani con-viviamo, con tutte queste altre specie.
Avvierete collaborazioni con altre istituzioni museali?
Il Museo delle Civiltà collaborerà a partire dal 2022 con molti enti, fra cui il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, e in particolare con la sua curatrice Marianna Vecellio, intrecciando il pensiero speculativo, le scienze umane, le scienze sociali e le ricerche artistiche intorno alla pratica e alla nozione di compost elaborata dalla filosofa e biologa Donna Haraway. Nei suoi rimandi ai concetti di suolo, scarto e fertilità, il compost celebra infatti il ruolo della trasformazione della materia e dell’alleanza tra forme del vivente, in cui “simile” e “diverso” sono compresenti in una condizione di costante vitalità e di crescita reciproca. Ma l’aspetto forse più rilevante che le pratiche contemporanee rivestiranno nel museo non è definito da un progetto specifico, quanto piuttosto dalla necessità di riconfigurare il museo come spazio-tempo di una ricerca senza condizioni e senza date di scadenza, e quindi senza risultati certi, ma solo fasi progressive.
In che modo?
A partire da quest’anno saranno avviate – con il coordinamento generale di Matteo Lucchetti, curatore per arti e culture contemporanee del Museo delle Civiltà – le prime sei Research Fellowship del museo, la cui attivazione costituirà il cardine di entrambi i nuovi ingressi, riconfigurati come manifesti di una metodologia di ricerca in costante divenire. Alcune vetrine, appartenenti a varie epoche della storia del museo, saranno lasciate vuote per essere affidate a sei artisti, invitati a dare così avvio a un nuovo programma di lungo termine in cui sviluppare autonomi progetti di ricerca. Il cui oggetto saranno le collezioni (sia quelle esposte che quelle, prevalenti, ancora collocate in deposito) e gli archivi del Museo delle Civiltà, e le molteplici problematiche che esse pongono in materia di de- e ri-contestualizzazione, ri-catalogazione e ri-scrittura delle ‘biografie’ degli oggetti e dei documenti, con particolare attenzione agli studi sulla provenienza in funzione di una riflessione comune, volta all’adozione di pratiche condivise nei processi di prestito, esposizione e restituzione.
Chi sono gli artisti che parteciperanno al progetto?
I sei artisti che compongono questo programma pluriennale sono Maria Thereza Alves, Sammy Baloji (in collaborazione con Black History Month Florence e Art Hub), DAAR-Decolonizing Architecture Art Research (Sandi Hilal&Alessandro Petti), Bruna Esposito, Karrabing Film&Art Collective e Elizabeth A. Povinelli (in collaborazione con Visible, Cittadellarte-Fondazione Pistoletto e Fondazione Zegna), Gala Porras-Kim (in collaborazione con MAO-Museo Arte Orientale, Torino). I risultati delle rispettive ricerche (mostre, opere, pubblicazioni, seminari, attività pedagogiche o anche il semplice mantenimento di una relazione di lungo termine con il museo) non saranno quindi predeterminati dall’istituzione, ma saranno gli artisti stessi a definirli. Risultato di un lungo processo di ricerca sarà anche la mostra personale di Georges Senga, a cura di Lucrezia Cippitelli, e saranno basati sulla dimensione incerta e progressiva della ricerca anche i nuovi progetti grafici, a cura di NERO.
Quali sono gli obiettivi che vi prefiggete attraverso la messa in atto di questa visione?
In ultima istanza, quello che tutte e tutti noi ci auguriamo che emerga da questa ricerca è che le “Civiltà” a cui il Museo è dedicato sono, per essere realmente tali, plurali, policentriche, intersezionali e multispecie, non solo storiche ma anche potenziali, in divenire o ancora da realizzare. E che quindi questo museo, o un museo come questo, non è tanto un rassicurante custode della realtà che conosciamo ma anche un attuatore di realtà alternative ad essa.
Tra le collezioni conferite dal 2016 al Museo delle Civiltà ci sono anche quelle dell’ex Museo Coloniale, a cui si era ipotizzato di conferire il nome di Museo Italo-Africano. Come ti muoverai in un momento così delicato in cui molte opere vengono restituite ai paesi d’origine e in cui si è affermata l’esigenza di reagire e contrapporsi a ogni tipologia di razzismo, anche a livello istituzionale?
Nei prossimi mesi saranno condivisi i primi componenti e le prime posizioni che progressivamente, fra il 2022 e lungo tutto il corso del 2023, attiveranno un gruppo di ricerca internazionale rivolto allo studio delle collezioni di provenienza coloniale, derivate dal conferimento al Museo delle Civiltà di una parte delle opere e delle documentazioni già presenti nell’ex Museo Coloniale di Roma, attualmente in fase di ri-catalogazione. Il Museo delle Civiltà non intende aprire nel prossimo futuro, da un “ex” Museo Coloniale, un “nuovo” Museo Coloniale, ma elaborare le possibilità del suo superamento.
Come state lavorando in tal senso?
Il gruppo di ricercatori – che sarà composto da antropologi, sociologi, storici, artisti, scrittori, musicisti, critici, attivisti e componenti delle comunità locali – condividerà in vario modo, in base alle singole posizioni ed esperienze, le proprie riflessioni proponendo forme e piattaforme di studio e condivisione alternative a quella museale. La ricerca verterà sui criteri con cui impostare attività di ricerca e programmazione, in base a cui la suddetta entità dovrà operare, attuando pratiche fattuali di restituzione ai paesi di provenienza delle opere e delle documentazioni. Con il gruppo di ricerca verranno condivise, quindi, anche le indicazioni fornite dal “Gruppo di lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali, presso il Comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali” istituito per decreto il 18 ottobre 2021 dal Ministro della Cultura, Dario Franceschini, e che dal 20 aprile 2022 vede la partecipazione anche del Museo delle Civiltà. L’artista Francis Offman, primo membro del gruppo di ricerca, concepirà un intervento inedito basato su un suo progetto a lungo termine, che sarà presentato entro il 2023 presso la sede del Museo delle Civiltà e che verrà acquisito dal museo in via permanente.
Per quanto riguarda le restituzioni invece come vi muoverete?
Restituire comporta, per altro, anche una serie di azioni preliminari fra cui nel nostro caso quella di iniziare a raccontare perché, dopo il fascismo, questo paese ha tenuto chiuso negli ultimi 50 anni il suo ex Museo Coloniale, generando di fatto nell’opinione pubblica una rimozione sistematica e strutturale sull’argomento. Va quindi raccontato tutto, senza tralasciare nulla, indicando in dettaglio e con una ricerca rigorosa i crimini del passato ma anche i vuoti, le omissioni e la catena delle conseguenze, persino burocratiche, più recenti. Perché altrimenti queste collezioni rimarranno solo dei cimeli che sembrano documentare il passato, quando invece rispecchiano ancora un’inadeguatezza, un rifiuto e una violenza perpetrate e perpetuate nel presente della nostra cronaca quotidiana. Riportare alla res pubblica italiana anche questi racconti è forse il compito più evidente, più ovvio e più indifferibile di un museo che ardisce a chiamarsi – nel 2022, a Roma, all’EUR – Museo delle Civiltà.
– Giorgia Basili
https://museocivilta.cultura.gov.it
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