Che cosa significa essere “culturemaker”
Sono tanti gli aspetti che concorrono alla definizione – e alla pratica – di culturemaker. Dallo specialismo alla sostenibilità, senza dimenticare la capacità di intercettare i bisogni collettivi
Quanti di voi si sentono, sono, vorrebbero essere culturemaker?
Parafrasando l’ultima uscita di Elena Granata – Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi, Torino 2021), un titolo che mette al centro i luoghi e le persone che li vivono, e i loro inventori – ne scaturisce una riflessione che pone l’accento sulla dimensione culturale di quei luoghi e di quelle persone. È la città, anzi le città, con i loro spazi più diversi (angoli, palestre, chiese, scuole, teatri, wunderkammer…), con tempi alla Bergson (“tutte città da un quarto d’ora?”), storie accadute (“il placemaker nasce nel medioevo”) e che accadono, a dare forma a un insieme di racconti, exempla come buone pratiche, ispirazioni nate da traspirazioni. In filigrana la cultura, nelle sue diverse e multiformi espressioni, traspare insieme all’istanza dominante del “re/ri”: rigenerazione-restituzione-relazione-ricucitura-reinvenzione e molto altro ancora. Sono (almeno) tre le riflessioni che tornano utili.
LA QUESTIONE DELLO SPECIALISMO
Prima riflessione. Lo specialismo è un bene se gli specialisti sanno lavorare, agire, pensare anche come squadra e intelligenza collettiva, come “pensiero di rete”, come “società dell’apprendimento” per citare Joseph E. Stigliz e il suo imparare a conoscere. Dei “danni dello specialismo” (titolo di un paragrafo del testo di Granata) siamo più o meno tutti coscienti e ne abbiamo subìto le conseguenze: dal sistema educativo e della formazione fino a quello delle istituzioni culturali, ogni volta e laddove gli specialisti non hanno preso consapevolezza di essere parte di un insieme, quella tessera che percepisce la sua singularis historia mentre vede il mosaico che si sta componendo con le altre. È l’arte musiva, di composizione e ricomposizione, che fa la differenza nella governance e nello sviluppo delle organizzazioni, la capacità di ri-conoscere la dipendenza (sana, generativa, svelatrice) nei confronti degli altri e l’intima interconnessione che ci caratterizza come professionisti, operatori, inventori, imprenditori culturali, e come persone. È la nostra capacità di costruire un sapere a vasi comunicanti, fortemente radicato e ispirato dalla storia e dalle storie. Ma come si può essere realmente disruptive, parlare di innovazione, di tensione evolutiva senza conoscere le nostre radici? E questo vale ancor più immersi come siamo nelle nostre piattaforme digitali.
“È l’arte musiva, di composizione e ricomposizione, che fa la differenza nella governance e nello sviluppo delle organizzazioni”.
Seconda riflessione. La sostenibilità non è piena e autentica se non è anche sostenibilità economica. Inutile dirsi culturemaker se non sappiamo far quadrare i conti, se l’unica ed esclusiva contezza è quella del cahiers de doléances che i fondi non ci sono, non sono sufficienti, non sono tanti quanto… innescando una malsana competizione che fino a oggi si è rivelata spesso una “guerra tra poveri”, guerra di risorse finanziarie certo, ma anche guerra di risorse umane, rimanendo inermi e inerti di fronte a uno dei fenomeni (e dei problemi) più seri: la retention dei talenti.
Terza e ultima riflessione. Consideriamo la nostra semenza: con l’anniversario dantesco ormai alle spalle, tra le infinite straordinarie citazioni utili a noi abitanti del XXI secolo, scelgo quella del canto X del Purgatorio: “Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perché qui non si trova”. E ancora una volta sono le nostre radici a svelarci come essere contemporanei, come essere culturemaker: Dante e il visibile parlare. Mentre lavoriamo, progettiamo e operiamo per le istituzioni culturali e le imprese creative, ricordiamoci che prima vi è un pensiero, che va accompagnato poi a quello che il sommo poeta definisce magistralmente il “visibile parlare”. Non il solo parlare e non il solo mostrare. Questa espressione ci ricorda che, mentre lavoriamo, progettiamo, operiamo, siamo chiamati ad abilitare nuove visioni.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65/66
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