Papa Francesco e il suo incontro con gli artisti? È stato consolatorio e ingiusto
“La Chiesa ha attribuito agli artisti tutte le richieste che avrebbe dovuto volgere a sé stessa”: le riflessioni dell’artista Alfredo Pirri presente all’incontro con il pontefice in Cappella Sistina
Scrivo alla comunità che si raccoglie intorno ad Artribune in seguito alle parole pronunciate dal Papa lo scorso 23 giugno, rivolgendosi a un grande numero di artisti di ogni disciplina presso la Cappella Sistina.
La stessa voglia di scrivere questo testo si è rinnovata dopo la lettura dell’intervista di Aldo Premoli a Don Giuliano Zanchi, che ne ha commentato i passaggi più importanti.
IL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AGLI ARTISTI
Ero lì il 23 Giugno, ad ascoltare il discorso del Papa, e tutto era ben fatto, addirittura meraviglioso: il contesto era impressionante. Le pitture di Michelangelo piovevano sui corpi degli artisti sottostanti inzuppandoli potentemente di una speranza tanto sapiente quanto potentemente dolorosa. E poi la fatica fisica finale a cui si è sottoposto il Pontefice nel voler stringere la mano a ognuno di noi, lo ha reso umanamente vicino a tutti i presenti.
Ma di mezzo, cioè fra l’ingresso monumentale e il contatto fisico delle mani, c’è il suo discorso. Che ho trovato consolatorio e ingiusto. E di questo, brevemente vorrei dire qualcosa perché, appunto, ne sento un impulsivo bisogno.
I punti salienti del suo discorso, quelli più possenti, credo siano riassumibili in alcune frasi, che riporto di seguito estraendole dal suo discorso così come pubblicato dalla Santa Sede.
“… L’artista ricorda a tutti che la dimensione nella quale ci muoviamo, anche quando non ne siamo consapevoli, è quella dello Spirito…
L’amicizia della Chiesa con l’arte è dunque qualcosa di naturale…
Sì, l’artista è un bambino – non deve suonare come un’offesa – significa che si muove anzitutto nello spazio dell’invenzione, della novità̀, della creazione, del mettere al mondo qualcosa che così non si era mai visto. Facendo questo, smentisce l’idea che l’uomo sia un essere per la morte…
Come i profeti biblici, ci mettete di fronte a cose che a volte danno fastidio, criticando i falsi miti di oggi, i nuovi idoli, i discorsi banali, i tranelli del consumo, le astuzie del potere…
L’arte non può̀ mai essere un anestetico; dà pace, ma non addormenta le coscienze, le tiene sveglie. Spesso voi artisti provate a sondare anche gli inferi della condizione umana, gli abissi, le parti oscure…
L’arte tocca i sensi per animare lo spirito e fa questo attraverso la bellezza, che è il riflesso delle cose quando sono buone, giuste, vere… Nella vera bellezza si comincia così a provare la nostalgia di Dio…
Anche i poveri hanno bisogno dell’arte e della bellezza…”
LE RIFLESSIONI DI ALFREDO PIRRI SUL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO
Sono parole ‘sacrosante’. Cioè finalizzate a mettere in evidenza, sigillandolo per sempre, lo spirito e il pensiero Cristiano con le sue istituzioni. Quando, infatti, viene sottolineato il rapporto naturale fra arte e Chiesa, si prepara il terreno per l’attacco frontale verso tutte le forme di esistenzialismo connotate da un discorso che include la morte e la considerazione verso di essa come orizzonte irreparabile della vita, cioè, qualcosa verso cui la vita non può altro che arrendersi. Infatti Don Zanchi estende la citazione di Hanna Arendt, già presente nel testo papale, contrapponendo le sue parole sull’umanesimo e sul senso caratteristico del Cristianesimo come dimensione “immediata e semplice” dello stile Cristiano a quelle (non citate dal Papa, ma inevitabilmente riferibili a lui) del filosofo Martin Heidegger che, com’è noto, in Essere e tempo elabora il senso dell’Essere (e dell’è come tempo presente) sullo sfondo della sua scomparsa. “Nella morte l’Esserci non è né compiuto né semplicemente dissolto né, tanto meno, ultimato o disponibile. L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo “non ancora”, è anche già sempre la sua morte. Il finire proprio della morte non significa affatto un essere alla fine dell’Esserci, ma un essere-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire”.
A questa condizione esistenziale, che ha fatto da sfondo a tutte le avanguardie artistiche fino ad oggi, Don Zanchi ci chiede in maniera esplicita di rinunciare, ora e per sempre, dicendoci addirittura che “… sono ormai cento anni che l’arte medita sulla crocifissione e il disfacimento dell’uomo. Un po’ troppo per tutti…”, invitandoci, credo, a smantellare la visione dolorosa del Cristo e attraverso essa di ogni visione traumatica che sovrasta l’essere umano e l’individuo (e perfino le altre specie viventi). Tanto è che poco dopo ci invita a riflettere sul ruolo dell’artista con questa frase: “Esiste anche un distacco del senso comune dall’arte contemporanea che non può essere sempre liquidato come ignoranza del popolino”.
QUAL È IL RUOLO DELL’ARTISTA?
Questo approccio al tema della scomparsa dell’essere che chiamerei positivo (meglio però sarebbe positivista) è frutto di un ragionamento teso a isolare l’artista, ancora più di quanto non lo sia già, ignorandone il percorso individuale e cercando di porlo al servizio di una spiritualità pienamente rappresentata dalla Chiesa, che si propone come entità disposta a farsi rappresentanza politica di tutti i suoi turbamenti e ribellioni, proprio in base a quel rapporto naturale evocato all’inizio. Ma, per tornare solo un attimo alla citazione mancata di Heidegger, quella condizione solitaria – orgogliosamente solitaria – dell’artista, insieme alla consapevolezza dell’autonomia del suo atto creativo rispetto a ogni dimensione reale o immaginativa che sia, deve considerarsi patrimonio irrinunciabile di ogni percorso artistico. Per tornare a citare Heidegger, quindi, “l’artista è l’origine dell’opera. L’opera è l’origine dell’artista. Nessuno dei due è senza l’altro. Eppure, nessuno dei due, da solo regge l’altro. Artista e opera ogni volta sono, in sé stessi e nel loro reciproco rapporto, in virtù di un terzo elemento, che è, invero, il primo, vale a dire ciò da cui sia l’artista sia l’opera d’arte traggono il loro nome: l’arte… (1)».
Naturalmente, ben venga il discorso rivolto a una relazione più positiva fra arte e popolo, anche quando questo passa (come dice il Papa) attraverso una critica dei falsi miti o delle astuzie del potere. Ma, mi chiedo, a quali falsi miti o a quale potere si fa riferimento? Ai soli miti del consumismo e al potere delle grandi imprese capitalistiche e a quello dello Stato? Anche qui, ben vengano le critiche, a condizione che fra i falsi miti si includano quelli sulla santità della Chiesa e sulla sua infallibilità che, nonostante tutto, continua ad animare lo spirito sacerdotale, che, a sua volta funge da trasmissione verso il cosiddetto popolo. E che dire della bellezza (inevitabilmente destinata a salvare il mondo)?
SUL TEMA DELLA BELLEZZA
Il Papa, è disponibile anche a fertilizzarla col suo contrario, purché si mostri con giustizia e verità. La Bellezza, però, si sa, muove gli animi e i corpi portandoli dove vuole lei e non necessariamente nel grembo di Dio.
È vero che, come ci ha detto il Papa, anche i “poveri” ne avvertono il bisogno, la invocano, ed è più che giusto offrirla a tutti strappandola dalle mani esclusive dei potenti della terra. Ma allora perché la Chiesa non si autocritica per tutta la bruttezza, con cui ormai da anni ha invaso (purtroppo con la collaborazione attiva del popolo) il nostro paesaggio, urbano e rurale, con chiese e arredi non soltanto “brutti” ma addirittura insignificanti? Il discorso a proposito della bellezza, il Papa, avrebbe dovuto riferirlo per primo alla Chiesa stessa invece che agli artisti, che con la loro presenza hanno dimostrato un interesse, quasi una venerazione smisurata nei suoi confronti. Il Papa, ma non lui, la Chiesa, ha attribuito agli artisti tutte le condizioni e le richieste che avrebbe dovuto volgere a sé stessa. Le sue parole di commiato – “la bellezza è quell’opera dello Spirito che crea armonia. Fratelli e sorelle, il vostro genio percorra questa via!” – sarebbe stato più giusto rivolgerle al proprio interno e non farne la base di un accordo ormai impossibile, un accordo che dovrebbe ripartire dal riconoscimento di una maggiore capacità, volontà e pertinenza dell’arte, rispetto alla fede, di penetrare lo spirito umano, comprendendolo ma anche allontanandosi da esso e quindi aiutandolo di più a sopportare la vita, proprio a partire dal non ignorarne il suo destino.
Il Papa e la Chiesa peccano di vanità e d’orgoglio! Non si attribuiscono alcun peccato, non riconoscono i propri limiti. E questo “peccato” è risuonato ancora di più quel giorno sotto la pittura di Michelangelo, ricordandoci le sue parole:
I’ t’amo con la lingua e poi mi doglio
ch’amor non giunge al cor; né so ben onde
apra l’uscio alla grazia che s’infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio. (2)
Alfredo Pirri
1 – M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Christian Martinotti edizioni, Milano, 2000, p. 3.
2 – Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Bari, Laterza, 1960
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