Ricordando Christine Ferry, una vita nell’arte tra dialogo e connessione
A qualche giorno dalla morte di Christine Ferry, ancora un omaggio alla sua incredibile vitalità e alla sua capacità di connettere mondi, idee, persone. Qui il ricordo di Lorenzo Madaro
Lo si comprendeva subito, entrando nella sua casa di Giuliano, nel basso Salento, che la sua vita era totalmente immersa nella dimensione intima dell’arte, vissuta a stretto contatto con gli artisti con un fare pregnante e insieme discreto, capace di generare progettualità e impegno, connessioni, senza badare mai al loro posizionamento nel sistema dell’arte; perché per Christine Ferry (Francia, 1948 – Tricase, 2023) contava l’anima delle persone e la loro capacità di articolare un pensiero attraverso una forma, un’immagine, un segno, un testo, uno sguardo. E non contava se davanti a lei ci fosse un grande curatore internazionale o un giovanissimo esordiente o un artista alle prime armi: lei era sé stessa sempre e comunque.
CHRISTINE FERRY E L’ARTE DELL’INCONTRO
Nessuna opera – e ogni opera era una traccia di un incontro, di un dialogo, di un progetto, di un’amicizia intensa. Come la scultura in ceramica di Giacinto Cerone che le aveva regalato la sua amica di sempre Graziella Lonardi Bontempo, posizionata con enfasi nella casa a corte di Giuliano, dove tutto conviveva in un ordine empatico e emotivo, dalle piccole tele di suo cognato Duccio Trombadori, che lei stimava enormemente, a una cera di Gregorio Botta, che custodiva con affetto, a un lavoro della sua amica cara Ileana Florescu, a un disegno in camera da letto di Piero Pizzi Cannella, suo vicino di casa a San Lorenzo a Roma – quartiere che ha molto amato – a una deliziosa carta germinale di Achille Perilli, che apparteneva a suo marito, a una fotografia del suo amatissimo nipote Simon d’Exea, a cui stamattina ho chiesto di fotografarmi alcuni angoli a me cari della casa di Christine (e che ringrazio per la sua totale disponibilità).
Quando è morta, alcuni giorni fa, forse nessuno se l’aspettava, perché ha vissuto cinque anni di convivenza con la malattia con stupefacente energia, finanche ironia, direi con forza ma anche con un’eleganza tutta sua; difatti fino quasi all’ultimo ha sempre continuato a vivere, dialogare e a pensare come se non ci fosse quell’ospite violento e non desiderato dentro di sé. Ne parlavo al telefono con la fotografa e amica di entrambi Tamara Triffez, che paradossalmente, nonostante il lungo passato romano di entrambe, ha conosciuto Christine soltanto in Salento, scelto da entrambe come buen retiro. E Tamara mi ha ricordato della fitta rete di connessioni, legami e incontri che anche nelle ultime settimane ha visto Christine parte di una comunità silenziosa e operosa, di amiche e amici come Susanna Mariani, che le è stata accanto con enorme affetto.
IL MONDO DI CHRISTINE FERRY
Entrare nella casa a Giuliano di Christine significava immergersi nella sua eleganza mai ostentata, mai ovvia, nella sua capacità di far convivere anime differenti, oggetti diversi tra loro per valore, provenienza, senso. E lo stesso accadeva anzitutto con le persone, con quella luce (che aveva anche negli occhi) tutta sua capace di farle conoscere e dialogare per poi fare – con altrettanta discrezione – un passo indietro, perché per lei connettere significava pensare e lo sapeva fare con grande spontaneità e impegno. L’ho visto sulla mia pelle, quando con lei una sera a cena a Salve da Luisa Laureati Briganti, anche lei stregata dal Salento, conobbi Laura Cherubini, altra sua grande amica di sempre, con cui ha condiviso progetti, mostre, ritualità e antichi legami (il padre di Laura, per esempio, era molto amico del marito di Christine), con cui l’altro giorno a Brera abbiamo condiviso il dolore della sua morte.
In casa di Christine, quindi, tutto questo mondo di affetti, geografie, cataloghi, fotografie, andirivieni di amici, che ospitava con la sua grande generosità, e tutto il resto conviveva con ricordi – mai nostalgici, perché sapeva che ogni fase dell’esistenza ha la sua bellezza – della sua intensissima vita romana, a cominciare da una grande fotografia di un suo amico di sempre, Claudio Abate (che era installata all’ingresso di casa), a cui ha dedicato una mostra preziosa nell’estate 2016, che oggi sembra ancor più lontana. Nei sotterranei di Palazzo Daniele a Gagliano del Capo, a pochi chilometri da casa sua, c’erano tutti i capolavori di Abate, le foto epiche che hanno tracciato l’immaginario e la memoria di un periodo unico per l’arte a Roma e Christine ci teneva moltissimo a presentare nella sua nuova terra le opere di uno degli artisti suoi compagni di strada con cui aveva condiviso impegni e visioni, anche negli anni in cui ha lavorato a lungo a Villa Medici, come ha ricordato Alessandra Mammì nello splendido ricordo che le ha dedicato nei giorni scorsi qui su Artribune. Proprio alcune settimane fa mentre ero alla mostra su Abate al MAXXI ho spedito a Christine su WhatsApp alcuni scatti delle fotografie che riguardavano la “sua” Villa Medici e le mi aveva risposto con un cuore. In quella risposta c’era tutto, non serviva aggiungere altro. In quei giorni, su un libro dedicato alla storia di Dora Stiefelmeier e Mario Pieroni, vidi una fotografia di un capodanno a casa di Christine a Roma, con Germano Celant e altri ospiti. Christine cercò di acquistare il libro online, ma Mario prontamente glielo spedì a Giuliano.
UN CONNETTORE DI PENSIERO E VITALITÀ
Per la mostra di Abate del 2016, come sempre, il lavoro di Christine è stato profondo, rigoroso, sensibile ma mai sbandierato su alcun comunicato stampa o sugli inviti della mostra: lei era così, amava impegnarsi ma detestava apparire, ricordo che in quegli anni la intervistai per una rivista di turismo in Puglia e nonostante la nostra amicizia non mi diede una sua foto da pubblicare, per cui il servizio uscì con immagini di opere di Gianfranco Pediconi (a cui aveva organizzato una mostra sempre a Palazzo Daniele) e dello stesso Abate. E credo che accettò il mio invito per l’intervista soltanto per amicizia, perché l’understatment – mai snob, perché sapeva sempre relazionarsi con tutti con lo stesso garbo – era l’essenza di Christine, che nella sua vita ha svolto un lavoro tutto suo, che non era quello della curatrice, neanche quello della coordinatrice di progetti culturali, e neppure quello di responsabile delle mostre e di ufficio stampa (entrambi compiti che ha anche svolto con grandissimo impegno a Villa Medici per vent’anni, come sappiamo), perché il lavoro di Christine era Christine stessa, cioè un connettore di pensiero e vitalità.
Altrettanto pregnante e discreto (e ovviamente determinante) è stato l’impegno di Christine nella sua nuova terra per portare Villa Medici, attraverso un ciclo pluriennale di residenze curate dall’associazione Capo d’arte, a Gagliano del Capo. Anche in quel caso il suo nome non compariva mai, perché lei era una energia silenziosa capace di svelarsi non nelle parole ma nella concretezza delle cose.
Sapeva vivere e sapeva convivere, anche nel nuovo contesto che aveva scelto come casa per la nuova parte della sua vita, pur sapendo che in Salento non poteva certo contare su istituzioni con esperienze di lungo corso sull’arte contemporanea. Ricordo quando diversi anni fa presentammo insieme un progetto pluriennale a un’assessora alla cultura del Comune di Lecce, con opere concepite anche lì, con i materiali del luogo: Luigi Ontani con la cartapesta, poi Gregorio Botta e altri nomi. All’entusiasmo dell’assessora, dopo il nostro incontro nel suo ufficio, seguì un sintomatico silenzio. Ma anche in quel caso Christine sorrise e mirò gli occhi al cielo, come a dire: “Pazienza”.
Lorenzo Madaro
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