Imprese culturali e creative. L’Italia non brilla come dovrebbe brillare
I numeri lo confermano: l’Italia non eccelle nelle statistiche sulle Imprese Culturali e Creative. Soprattutto se confrontata agli altri grandi Paesi europei
Nel 2022, le Imprese Culturali e Creative in Italia erano 74.505, posizionando il nostro Paese al quinto posto dietro Germania, Spagna, Olanda e Francia, che di imprese attive nel 2022 ne contava quasi 138 mila. Quarta posizione per il nostro Paese in riferimento al numero di occupati (circa 190 mila contro i 476 mila della Germania), e per valore aggiunto (poco più di 8 milioni contro i 23 milioni tedeschi). Sono questi i dati resi disponibili da Eurostat, che indicano come in altre economie avanzate dell’Europa, le industrie culturali e creative abbiano un peso in termini assoluti ben più rilevante di quanto accada nello stivale. La Germania raccoglie senza dubbio le performance migliori: maggior numero di occupati per imprese (5,57 contro i 2,54 italiani), maggior valore aggiunto per imprese (circa 290mila euro contro i 113mila italiani), e maggior valore aggiunto per occupato (52mila euro contro i 47mila italiani). In sintesi, il nostro Paese è senza dubbio tra i grandi player del settore in ambito comunitario, ma tra quei grandi player ha una posizione defilata. Come giocare in serie A e combattere per scongiurare la retrocessione.
Un’Italia poco competitiva in termini di ICC
Tenendo come riferimento i primi cinque Paesi, infatti, l’Italia presenta risultati poco competitivi, che vanno inquadrati in uno scenario più ampio. Considerando che il settore delle Industrie Culturali e Creative è caratterizzato da un ruolo predominante del lavoro rispetto a quello di altre tipologie di industrie (dove prevalgono i capitali), è possibile quindi sostenere che il numero di imprese ascritte al cluster deve essere in qualche modo posto in relazione al numero di abitanti. Sulla base di tale dato, quindi, è possibile affermare che in Italia esistono 13 ICC ogni 10.000 abitanti, dato che di nuovo pone il nostro Paese al quarto posto, davanti solo alla Germania. Con la differenza che, però, il tessuto ICC tedesco vanta una demografia molto più sviluppata di quella italiana, ed un conseguente incremento del livello di concorrenza. Un quarto posto, quindi, che a ben vedere è più vicino al quinto che al terzo.
Il lavoro nelle Imprese Culturali e Creative
Altro dato estremamente importante è il dato degli occupati per impresa; in media le ICC nostrane hanno l’aspetto dell’ufficietto: 2,5 occupati, con sicuramente una rete di collaboratori freelance (termine che nel settore è spesso sostituibile con il termine “precario”), che competono per un volume d’affari sicuramente “al ribasso” rispetto alle altre economie considerate. Meno imprese, che competono per un fatturato netto medio di circa 345mila euro, contro i 487mila euro in Germania e i 468 mila euro in Spagna. E così, anche quel basso numero di occupati per imprese, che è alla base del concetto di valore aggiunto per dipendente, deve essere interpretato anche alla luce del basso valore generale dell’economia considerata, e del contesto giuridico (si legga collaboratori esterni) italiano. Quello che questi dati raccontano, quindi, al di là dei numeri, è un mercato che attende un incremento del livello di spesa. Un mercato che, a fronte del basso volume di fatturato, esprime performance al di sotto delle proprie possibilità. Volume di fatturato che da un lato è sicuramente collegato con i bassi livelli di spesa in cultura da parte dei cittadini, ma anche dalla presenza importante di un settore fortemente ancorato ad una presenza pubblica, condizione che nel mercato specifico tende a spingere verso il basso il valore di alcune transazioni.
C’è un problema di politiche culturali e del lavoro
Non vanno poi trascurati quegli attori economici che, a fronte dell’alto tasso di offerta di lavoro (da parte dei lavoratori), agiscono attraverso contratti che consentono di abbassare il costo del lavoro, agendo anch’essi come zavorre sul volume totale del fatturato. Alta densità di patrimonio, con una forte presenza pubblica e uno scarso volume di fatturato privato, portano le imprese a ridurre al minimo i propri investimenti e soprattutto i costi fissi, riducendo il numero di dipendenti e aumentando i collaboratori e definendo nella leva del prezzo un fattore competitivo prevalente. Una condizione nella quale, senza ombra di dubbio, lo stimolo esogeno per gli acquisti culturali (che da anni il nostro Paese riconosce ad alcune categorie di cittadini), può avere un ruolo di impulso, che tuttavia necessita di una maggiore potenza e copertura finanziaria.
Come si può invertire la rotta?
È necessario operare azioni che stimolino l’incremento della spesa, anche attraverso azioni indirette, come la completa deducibilità degli acquisti da parte dei cittadini nel settore culturale e creativo. A tale azione, che andrebbe a coprire soltanto una quota parte del mercato, sarebbe altresì necessario associare ulteriori strumenti volti ad incrementare il fatturato medio e il giro d’affari complessivo delle Industrie Culturali e Creative. A cominciare da un incremento del valore del lavoro riconosciuto nei contratti di concessione, fino ad un incremento dei controlli contrattuali per valutare le tipologie di retribuzione effettivamente adottate dagli operatori economici. Maggiore valore per il lavoro nelle gare pubbliche, maggiore disponibilità per i cittadini che, anticiperebbero soltanto le spese per la cultura, vedendo poi ridursi i propri oneri fiscali fino ovviamente ad un valore massimo, potrebbe comportare una maggiore spesa, maggior redditi, e un incremento, seppur non macroscopico, del fatturato attuale del mondo delle ICC.
Un miglioramento che non solo gioverebbe al settore, ma che potrebbe comportare una serie di miglioramenti a livello sistemico, che per quanto piccoli, potrebbero restituire all’Italia quella reale vocazione culturale e creativa che, senza ombra di dubbio, è presente nei nostri cittadini più di quanto lo sia nelle nostre imprese.
Stefano Monti
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