Dal quiet quitting al conscious quitting: come la cultura risignifica il mondo del lavoro
L’abbandono del lavoro da parte delle generazioni più giovani è sempre più “silenzioso” e “coscienzioso”. Ed è la prova che valori e priorità dei nuovi lavoratori sono cambiati, probabilmente in meglio
Conosciuto anche come “coasting”, il quiet quitting è un fenomeno che ha cominciato a diffondersi in particolare dopo la pandemia, in concomitanza con la nascita di una inedita sensibilità nel mondo del lavoro relativamente all’abbandono silenzioso del proprio posto di lavoro nel nome di nuove priorità. Il fenomeno è apparso in un contesto ambientale caratterizzato da alcuni neologismi frutto del mutato contesto.
Le nuove parole che definiscono la società contemporanea
Per esempio VUCA, un termine che indica come le persone, nel luogo di lavoro ma anche nella vita sociale e familiare, percepiscano più che in passato la vulnerabilità, l’incertezza, la complessità e l’ambiguità di quanto li circonda. I lavoratori e le lavoratrici, con picchi nella Generazione Z, hanno spesso introiettato un approccio YOLO – You Only Live Once – a tal punto da riposizionare la gerarchia dei valori, dei desiderata e delle aspettative di vita e di attività. Già sul finire del 2022 Forbes sceglieva come parola dell’anno “Gaslighting”, intendendo la strumentale e dannosa tendenza di far credere e far percepire una realtà diversa da quella effettiva. Questo contesto così vulnerabile e fragile raccoglie, in parte come effetto in parte come causa, il fenomeno dell’inverno demografico, che forse sarebbe più corretto definire “glaciazione demografica”, poiché, al di là delle simpatie stagionali e di temperatura, è inequivocabile che dopo l’inverno arrivi la primavera, mentre il fenomeno demografico pare essersi posto su una parabola discendente, con una allarmante emergenza per lo strappo di fiducia nei rapporti umani, resistenti all’essere generativi e fecondi – che è cosa ben diversa dall’aspetto riproduttivo in senso stretto.
Il quiet e il conscious quitting
L’isolamento e l’individualismo dell’uomo del Novecento ha in questi anni assunto tratti estremizzati dal fatalismo high-tech con l’onlife (la vita trasferita online) quando dovremmo piuttosto recuperare l’etimo della parola virtuale: da virtus, virtù. Il quiet quitting è a tutti gli effetti la controtendenza alla hustle culture, ovvero il mito di matrice americana che spinge le persone a dedicare la loro vita prevalentemente al lavoro. Una crescente e ininterrotta (potremmo forse azzardare irreversibile) presa di coscienza dell’importanza di ristabilire le priorità e bilanciare la vita lavorativa con quella familiare, affettiva e amicale, relazionale, partecipativa e civica, con un altrettanto crescente interesse verso buone cause di natura ambientale, sociale e culturale, ha come dire “stabilizzato” il fenomeno del quitting spostandolo da un piano silenzioso ad un livello consapevole. Con conscious quitting si intende non tanto una great resignation, quanto una postura resiliente da parte dei lavoratori rispetto a una cultura d’impresa rispettosa dei diritti umani, ambientali, sociali, culturali. Si tratta dell’abbandono consapevole del proprio impiego: invece di continuare a lavorare facendo il minimo indispensabile, i lavoratori che non sono d’accordo con i valori aziendali arrivano ad esprimere un dissenso aperto.
Generazione Z e mondo del lavoro
Sono soprattutto gli zoomers, come dicevamo, a non essere più disposti a fermarsi in ufficio o tenere il pc acceso per fare straordinari (anche retribuiti), con una anticiclica attrazione (rispetto allo smart working tout court) verso la vita lavorativa in presenza. Una presenza che si struttura con modalità diverse, caratterizzata da una rilevanza, densità e focalizzazione del tempo insieme alla qualità delle relazioni. Motivo per cui si è meno propensi ad utilizzare tempi diversi come i weekend o a caricarsi di responsabilità, lasciando alla variabile economica un ruolo ridefinito dalle logiche del bilanciamento tra il lavoro e tutto il resto, con un tempo che è sempre meno liberato da e sempre più libero per.
La cultura come chiave di comprensione del lavoro
Quale può essere il ruolo della cultura nei suoi diversi linguaggi per fronteggiare un fenomeno che non è negativo di per sé ma i cui impatti potrebbero impoverire le dinamiche economiche in termini di produttività sostenibile? Oggi le imprese più sostenibili e innovative hanno chiaro riguardo alle persone che lavorano in azienda che vi sono due facce di una stessa medaglia: da un lato il costo d’esercizio del lavoro nelle sue diverse componenti, dall’altro l’investimento in soluzioni di welfare aziendale che tengano conto delle esigenze personali (e dunque necessitanti di risposte da personalizzare e non standardizzare) di dipendenti e collaboratori.
Quando si parla di cultura d’impresa si intende una visione che porta con sé l’ascolto dei bisogni e l’individuazione di percorsi coerenti con la missione aziendale, esplicitando i valori e la stewardship. Ed è in questa traiettoria che si colloca il welfare con l’addendum culturale.
Il quitting nel mondo della cultura
Il mondo della cultura ha compreso da tempo che non è restando “devoted to objects” che si cresce e progredisce, ma collocandosi in una dimensione “driven by purpose” e su questo può avere molto da insegnare alle imprese, spostando l’attenzione dalla mera logica dei compiti a quella degli obiettivi. Il mondo della cultura, ed in particolare quello delle imprese culturali e creative, ha accompagnato la predilezione verso competenze-trama e modelli organizzativi teal (più orizzontali e leggeri) nei quali la componente del dialogo, dell’interazione e della scoperta continua a rappresentare una fonte di restanza, “nonostante” non sia un mondo che brilli per gratificazioni economiche.
Nel mondo della cultura, in altre parole, il fenomeno del quitting non ha attecchito come altrove. Questo non è di per sé né positivo né negativo, ma deve far riflettere per immaginare politiche del lavoro rispondenti a un mondo che cambia e al contempo capaci di garantire competitività e sostenibilità al sistema-paese.
Irene Sanesi
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