La miopia di un preside
Questa lettera di Maria Rosa Sossai, la quinta, è indirizzata agli studenti della Quinta C2 del Liceo Artistico de Chirico di Roma, con cui ho vissuto una condizione di peer learning. Ed è andata tutt’altro che bene. Un aneddoto che è uno specchio eloquente dell’istruzione in Italia.
Cari studenti,
gli ultimi due mesi sono stati per tutti noi un periodo movimentato e pieno di colpi di scena. Quando il Collegio Docenti poco prima di Natale mi aveva affidato la gestione del nuovo spazio espositivo del Liceo, ho pensato subito che era l’occasione giusta per mettere in pratica quello che da tempo vi ripetevo, ovvero che “si impara facendo”. Vi ho subito coinvolto nella simulazione di quello che normalmente accade nel mondo dell’arte; abbiamo creato i gruppi di comunicazione, allestimento, documentazione, mediazione culturale e insieme abbiamo scelto i lavori degli studenti da esporre. Altri docenti avevano aderito con entusiasmo, offrendo la loro collaborazione. Avevamo anche trovato il nome, Fuori Luogo, realizzato la grafica del logo e un banner era stato affisso fuori lo spazio. Anche il personale di segreteria e di assistenza era contagiato dal grande entusiasmo che si respirava a scuola e che circolava tra i piani, tutto era pronto dopo una settimana di lavoro intenso. Poi, quando si è trattato di mettere le didascalie, vi ho suggerito di scriverle provvisoriamente a matita sul muro accanto alle opere, come si fa nei musei, nelle fondazioni e nelle gallerie d’arte.
Il giorno dell’inaugurazione i vostri occhi brillavano per l’emozione e io ero fiera di voi, quindi quello che è successo ci ha travolto come una valanga, lasciandoci senza fiato. Alla vista delle didascalie scritte sul muro, il preside è andato su tutte le furie, dicendo che le considerava un atto vandalico di cui ero responsabile, che non avrebbe permesso l’apertura dello spazio e che ovviamente ero sollevata dall’incarico. Le persone presenti, compresi i genitori degli alunni, assistevano attoniti alla scena mentre alcuni di voi erano in lacrime per la delusione e il sentimento di impotenza. Davanti all’aggressione del preside non ho provato però nessuna vergogna, anche se ho pensato che chissà quanti punti stavo perdendo ai vostri occhi. Mi sono sforzata di vivere in maniera non frustrante quella che a tutti gli effetti sembrava, dal punto di vista educativo, la fallimentare conclusione di un progetto.
In classe la volta successiva vi ho detto che insieme avremmo cercato di trasformare questa sconfitta in una risorsa. Ma come? Annaspavo, lo confesso, perché mi sentivo in colpa nei vostri confronti, avevo tentato di parlare con il preside ma era stato irremovibile, per lui quelle scritte erano un incitamento antieducativo a devastare l’arredo scolastico. La vostra rabbia non trovava uno sfogo, ci voleva un atto riparatore concreto. Eravamo da poco andati a un incontro con Monica Haller, che aveva allestito una biblioteca alla Nomas Foundation di Roma sul tema della guerra, con libri realizzati dai veterani della guerra in Afghanistan. Parlando di quella visita, Francesca ha detto che per lei la guerra era l’ingiusta censura subita a opera del preside e Veronica ha aggiunto che allora la nostra partecipazione al progetto The Veterans’ Book poteva essere la storia di quello che era successo.
Quando l’artista e Nomas hanno accolto con entusiasmo la nostra proposta, ci siamo messi con calma a raccogliere il materiale prodotto – comunicato stampa, foto, interviste, raccolta di firme – per montare il libro che a maggio speriamo di presentare. Siamo d’accordo, anche se non ce lo siamo detti apertamente, che raccontare è il modo più efficace per affrontare i problemi, e che farlo in gruppo rende tutti più forti.
Maria Rosa Sossai
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
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