Jimmie Durham e la distruzione creatrice
La 12esima missiva della rubrica “Lettere da una professoressa” è indirizzata a Jimmie Durham, artista, attivista ed educatore. Un ricordo che inizia con le riprese di un film nel 2003 e arriva agli insegnamenti di una distruzione controllata.
Caro Jimmie,
ci siamo incontrati la prima volta nel 2003 a Paliano durante le riprese del film The Pursuit of Happiness, che stavi girando insieme ad Anri Sala; in quell’occasione, Mario e Dora Pieroni avevano chiesto a un gruppo di amici fra artisti, curatori, collezionisti di fare le comparse nel film. Intorno a te e alla troupe c’era un’atmosfera di allegra complicità. Pronunciavi le parole in modo lento e pacato, accompagnandole con uno sguardo sorridente, forse per manifestare la tua volontà di stabilire un contatto con tutti, riservando loro la massima attenzione possibile.
Quei momenti vissuti insieme mi sono tornati in mente mentre rivedevo il film, proiettato all’interno della tua mostra al Macro di Roma. Ma a spingermi a scriverti questa lettera sono state soprattutto le immagini della performance Smashing da te realizzata nel 2005 a conclusione dell’incarico come visiting professor alla Fondazione Ratti di Como. Eri intento a distruggere sistematicamente con una grossa pietra gli oggetti che i partecipanti al workshop poggiavano su un tavolo davanti a te. Il modo in cui eseguivi queste distruzioni, ritmate dal rimbombo della pietra che sbatteva sul tavolo, presentava una serie di elementi in stridente contraddizione fra loro: la potenziale violenza dei gesti era bilanciata da un misurato controllo, l’incongruità del contesto si scontrava con la ripetitività rituale dell’azione. Inoltre, dopo ogni annientamento rilasciavi una certificazione con bollo, riponevi la penna nel taschino della giacca e il bollo dentro il cassetto, con la pedanteria tipica del burocrate di un ufficio del catasto in antitesi con la solennità dei tuoi gesti.
Dalla visione dell’opera emergeva l’insegnamento che ogni crescita prevede la messa in discussione e il superamento di quello che già esiste. Le tue sobrie demolizioni erano un modo di aprire gli occhi sull’esperienza artistica che deve conservare la freschezza dell’imprevedibile e tenere alta la curiosità sui suoi esiti. L’attivismo politico maturato nel Movimento Indiano d’America ti ha insegnato a trasformare i gesti apparentemente devastatori in un dispositivo utile a riappropriarsi della Storia, rendendo la conoscenza uno strumento democratico e non più un esercizio al servizio del potere. Il libero arbitrio e l’affermazione del principio di libertà si attuano attraverso processi di decostruzione che sono il perno attorno a cui ruota il processo creativo e, aggiungerei, qualsiasi atto formativo.
Il vero educatore è quindi colui che si fa carico dell’impossibilità di insegnare e custodisce consapevolmente il vuoto di sapere che ne deriva. Sulla scia di quanto affermato da Martin Heidegger, che nel 1951 scriveva “il pensiero più provocatorio è quello che non abbiamo ancora concepito”, l’attività intellettuale consiste nella valorizzazione di quello stiamo facendo e pensando in questo momento, conferendo così un senso sempre nuovo al nostro stare al mondo.
Ritengo di avere ricevuto un insegnamento dalla tua generosità, quando alla fine delle riprese del film ci hai raccolto intorno a te e hai regalato a ognuno di noi un disegno come ringraziamento per la nostra partecipazione al film: il mio ha al centro una casetta con sopra una freccia e la parola “a house” seguita a destra dalla scritta: “many more houses, high-rise apartment buildings, museums, churches, banks, etc.”.
Maria Rosa Sossai
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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