Insegnare allo stato gassoso. La didattica di Yves Michaud
Se è vero, come insegna Noam Chomsky, che non c'è democrazia senza educazione, cosa si può fare allo stato attuale dell’insegnamento nel nostro Paese e nella nostra epoca. Alcuni spunti arrivano da un saggio di Yves Michaud, immerso nello stato gassoso dell’arte.
Accanto al problema della déculturation de notre société, al declino dell’istruzione e alla crisi dell’istituzione scolastica (legata all’arte contemporanea, e non solo), al centro dello scenario (apocalittico?) d’oggi è posto un quesito altrettanto ardente, che investe le tecniche di trasmissione del sapere. Di un sapere le cui modalità divulgative “sono cambiate sotto quasi tutti gli aspetti che possiamo prendere in considerazione”.
Se, come ha insegnato Noam Chomsky, non c’è democrazia senza educazione, “non c’è società realmente libertaria e illuminata fin quando il fine della produzione è una produzione di beni e non di esseri umani liberi, reciprocamente associati in condizioni di uguaglianza, in cui non si è solo spettatori ma partecipi”, è facile intendere che, in un clima come quello attuale, diventa necessario ritrovare alcune prassi socio-pedagogiche utili a risvegliare il cervello del mondo. Del resto la pedagogia sociale, “in molte sue formulazioni” – è stato Raffaele Laporta a scriverlo – “include da tempo la società facendo delle sue dinamiche politiche, economiche, culturali una delle polarità della crescita culturale della persona e della sua esistenza. Non si può ormai pensare un processo educativo al di fuori di un contesto sociale, rispetto al quale essa è chiamata ad attrezzare ogni individuo, superando difficoltà oggettive, calcolando condizioni ostili e le diverse età della vita e i cambiamenti sempre più incalzanti nelle condizioni di esistenza di ogni comunità umana”.
È proprio a questo panorama che Yves Michaud ha dedicato, nel 1993, una serie di riflessioni che disegnano, con ottimismo, vie d’uscita da un terribile (e temibile) labirinto paludoso che inghiotte il sistema scolastico. Partendo da una personale avventura – quella di direttore dell’Académie Nationale Supérieure des Beaux Art de Paris (1989-1996) – Michaud avanza, rileggendo tre importanti scuole d’arte (il Bauhaus degli Anni Trenta, il Black Mountain College degli Anni Cinquanta e il Nova Scotia College of Art and Design di Halifax degli Anni Settanta), l’ipotesi di un insegnamento militante e in divenire, in grado di garantire allo studente (e magari anche al futuro artista) non solo le pratiche e le teorie dell’arte, ma anche quel ventaglio di esperienze utili a costruire una pratica preparatoria, un binario immaginifico che sorvola la crisi dell’umanità.
Tra resistenze e cambiamenti, Michaud punta l’indice sul cuore dell’istruzione artistica per centrare l’attenzione sulle tecniche, sull’identità e sulla riflessione. Ma anche su un sapere manuale che sia in grado, assieme a un costante potere teorico, di sviluppare una conoscenza camaleontica capace di costruire idee nuove, nuovi ambiti operativi, nuovi discorsi con un’arte che sia anche possibilità – in una situazione di incertezza – lavorativa, azione e trasformazione dell’energia, espressione, costruzione e orientamento “verso una nuova direzione”, verso “nuovi sbocchi professionali”, verso le nuove luci del mercato.
Quali le missioni e le funzioni, allora, all’interno di una scuola d’arte? E quali i frutti da cogliere per resistere al buio della disoccupazione? “Le possibili funzioni di una scuola d’arte”, avverte Michaud, “si iscrivono in una problematica generale che possiamo definire con tre termini: apprendere, praticare e produrre”. Ovvero con tre modalità “tanto essenziali quanto diffuse della relazione con ogni attività umana”.
Queste tre prospettive, legate a una prassi che insegna a porre domande (“insegnare a porre domande è un’arte tutta da imparare e da scoprire”), rappresentano, così, assieme a una parola chiave che è nuove tecnologie, la costruzione di un percorso utile a “formare professionisti di mestiere”. Perché le scuole d’arte insegnano tecniche, e “le tecniche non fanno l’artista, ma l’artigiano, il professionista, l’uomo di mestiere, l’uomo abile”. Si tratta allora di formare un uomo capace di sfruttare a proprio piacimento gli strumenti del fare. Un uomo in grado di navigare nel mare gassoso della contemporaneità (nella “trasformazione di un’epoca in un’altra”, dove trionfa l’estetica e l’arte diventa un gas, un profumo diffuso, un’atmosfera laccata). Un uomo, infine, in grado di bucare il mercato con nuove (e a volte anche vincenti) idee.
Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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