Puerilia: quando il teatro è dei ragazzi
La 19esima missiva di questo ciclo/rubrica è indirizzata a Chiara Guidi della Socìetas Raffello Sanzio. In particolare in qualità di ideatrice di “Puerilia - festival di puericultura teatrale”, che si svolge da quattro anni al Teatro Comandini di Cesena.
Cara Chiara,
ho vissuto un’esperienza davvero emozionante domenica 30 marzo al Teatro Comandini di Cesena. Quando mi hai invitato a uno degli incontri da te organizzati nell’ambito del festival Puerilia, hai spiegato che l’edizione di quest’anno era la prima di un ciclo triennale dedicato allo sviluppo e all’applicazione del “metodo errante”, che ha lo scopo di creare una relazione fra attori, educatori e bambini sul terreno delle arti performative e invertire, errando, la dinamica didattica, andando da ciò che si conosce a ciò che non si conosce.
Il coinvolgimento, oltre che dei genitori e degli insegnanti, anche di studiosi di altre discipline nasce dalla constatazione che il teatro, la pedagogia e l’arte condividono il tempo anacronistico della creatività e che qualsiasi crescita necessita di un processo di lenta sedimentazione. Ne è un esempio il vostro metodo, che nasce dal lavoro con gli insegnanti e continua poi con gli attori e i bambini.
Mentre assistevo alle prove dello spettacolo La schiena di Arlecchino [nella foto], che sarebbe andato in scena il pomeriggio, ti osservavo parlare alle giovani attrici; ricordo in particolare una frase che dicevi loro con modi solleciti e autorevoli: “Il lavoro dell’attore consiste nel creare, non nel ripetere”. La neuroscienza e l’arte hanno capito da tempo quanto la creazione preveda la ripetizione nella rielaborazione, che è in sostanza il modo di apprendere dei bambini. L’errore di noi adulti è di sottovalutare l’aspetto buffo e divertente dell’apprendimento, senza capire che è proprio attraverso il gioco che i bambini imparano le cose importanti e utili alla loro crescita.
I protagonisti dell’azione teatrale erano i bambini, perché ne hanno determinato l’andamento attraverso le loro reazioni. Lo spettacolo metteva in luce la conflittualità incarnata dal personaggio di Arlecchino, simbolo della difficoltà a incontrare il nuovo a e scoprire che la verità è qualcosa che in ogni momento può andare in frantumi. Ma porsi domande tutti insieme non è forse il modo migliore per rispondere alla reattività del tempo reale e per compiere quel passaggio dal noto all’ignoto, attraverso il dialogo? L’arte, il teatro, la passione intellettuale dilatano e moltiplicano i tempi, e nel tuo spettacolo i bambini insieme al pubblico hanno scoperto l’erranza come errore necessario per evolvere e andare avanti
Alla fine ci siamo chiesti: cosa succede dopo la visione di uno spettacolo? È possibile continuare quell’attività di scoperta e apertura per capire cosa fare di questa esperienza? C’è qualcosa che forse va dimenticato? Abbiamo concluso, in accordo con gli altri invitati, che forse dobbiamo riappropriarci della “metafora della manutenzione”, un modo per permettere a ognuno di noi di costruire i propri strumenti di ricerca della verità.
Maria Rosa Sossai
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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