Metti un sabato al museo con mamma e papà. La didattica al Madre di Napoli
I bambini e l’arte contemporanea. Un rapporto tutto da costruire. La capiscono davvero? Qual è il miglior approccio per guidarli alla scoperta di una mostra? Quali parole usare e come dirle? Ce lo spiegano il direttore del Madre di Napoli, Andrea Viliani, gli operatori museali e naturalmente le voci dei bambini. Abbiamo visitato assieme a loro la mostra dedicata a Lucio Amelio.
Il Madre, sulle prime, fa l’effetto di un grande portone giallo incastrato a forza nella scenografia di Natale in Casa Cupiello. Convive con signore in pigiamone di pile che stendono il bucato ai balconi e con il traffico domestico di cucine con vista su marciapiede e dehors a tre quarti di carreggiata.
Ma questa convivenza anomala, invece di togliere fascino, in verità ne aggiunge. La sensazione è di spiazzamento. E, al tempo stesso, quasi di osmosi fra il tessuto urbano e la spazialità del museo. Una distonia che piace a molti e che è diventata, negli anni, la chiave di volta di un rapporto intenso, organico, tra la missione culturale del museo napoletano e la comunità cittadina. Un rapporto che lo stesso direttore Andrea Viliani sottolinea, descrivendo iniziative come il recente Giallo Natale: una performance visiva e musicale dove il museo è uscito fuori dalla sua sede di via Settembrini per invadere, assieme ai ragazzi delle scuole, una delle maggiori piazze del centro storico.
Noi invece prendiamo parte a FamigliaMadre#2, che è uno dei rodati appuntamenti domenicali del museo. I bambini e i loro genitori visitano assieme una delle mostre ospitate e poi, colori e pennelli alla mano, collaborano nella creazione di lavori ispirati alle opere esposte. La mostra in questione è ostica: Lucio Amelio dalla modern art agency alla genesi di terrae motus (1965-1982). Documenti, opere, una storia… La parabola professionale ed esistenziale di un gallerista d’avanguardia come Lucio Amelio sembrano parecchio distanti dalla intonsa sensibilità di un bimbo.
Eppure, a ben guardare, chi meglio di un bimbo di sette-nove anni può capire cosa sia il collezionismo o come maneggiare le peculiari dinamiche del mercato dell’arte? I bambini sono collezionisti per vocazione. Nelle loro camerette ammassano giochi, peluche, monopattini e ogni sorta di aggeggio multicolore. Oggetti il cui valore è regolato non tanto dall’economia aritmetica, ma dalla misura di un appagamento personale. Dal desiderio di partecipazione e di possesso di un mondo, che è quasi sempre più immaginario che reale. Come per i collezionisti e i mercanti d’arte, anche il denaro per il bambino è, in fondo, una questione strumentale. Raramente ha valore di per sé, ma è il prezioso mezzo con cui acquisire qualcosa di desiderato. Un qualcosa da esibire con orgoglio, o scambiare, ai limiti della bieca speculazione, con chi condivida quello stesso metro di misura e quello stesso desiderio. Un po’ come quando andavano di moda gli album dei calciatori e la rarissima figurina di Nicola Pizzaballa apriva le porte del successo e dell’onorabilità sociale al bambino che la possedeva, garantendo poi plusvalori esagerati in caso di cessione.
La mostra del Madre documenta l’evoluzione dei gusti e degli interessi nella carriera di Lucio Amelio e la camaleontica eterogeneità della sua collezione. A un bambino questo non serve nemmeno spiegarlo. Il trasformismo è per lui cosa quotidiana. Come giocare con i Pokemon e il secondo dopo dedicarsi a delicate operazioni a cuore aperto sull’Allegro Chirurgo. Insomma, non molto diverso che passare da Andy Warhol a Joseph Beuys.
La visita alle sale, in linea di massima, si svolge come un normale tour con guida. Gli operatori didattici che conducono il gruppo di bambini e genitori raccontano le opere caricando di calibrata teatralità il dialogo, marcando le espressioni del volto e i gesti e rispondendo, dove possibile, alle “terrificanti” domande dei giovani visitatori. In realtà, nel raccontare un’opera d’arte contemporanea a un pubblico di bambini è interessante soffermarsi anche sul linguaggio che più o meno coscientemente si finisce per mettere a punto. L’obiettivo è semplificare la parola, lavorando spesso di analogia, ma senza per questo far decadere troppo la cifra poetica, il valore sociale: cose che nell’arte sono, di norma, in-semplificabili.
Il risultato è la creazione di una lingua franca fatta di bruschi scarti di registro, dove anche il termine gergale o dialettale torna utile se facilita l’accessibilità e la conoscibilità del concetto. È una lingua dove per spiegare il taglio di Lucio Fontana si può far leva sull’innata predisposizione dei bambini a rompere le cose per vedere cosa c’è dentro. O ricorrere al misterioso fascino dei buchini neri nelle prese di corrente, che sembrano fatte apposta per infilarci dentro qualcosa. Tra tutte le opere spiegate, i ragazzi scelgono alla fine la loro preferita. È il passaggio propedeutico all’azione pratica. Subito dopo la visita, infatti, i bambini, sono chiamati a reinterpretarla con tempere, colla e ritagli di carta colorata. Sporcandosi le mani – ma spesso anche i gomiti e la faccia – assieme ai loro genitori.
È degno di nota come, nelle loro scelte, il sofisticato e poliforme Gerhard Richter sia tra i più gettonati. Non è certo il meno complesso e nemmeno il più accattivante. Eppure i bambini ne rimangono colpiti. “Fa delle strisce”, dicono loro “e con queste strisce esprime la sua arte”. Il tormentato Richter ne sarebbe fiero. Il massimo della profondità unito al massimo della rarefazione. Non è detto che sia del tutto vero il luogo comune per il quale ogni bambino nasce artista. Quello che è certo, però, è che un bambino pratica con continuità quel misto di logica spietata e predisposizione allo stupore che differenzia chi crea, vende e colleziona opere d’arte dallo stipendiato statale medio.
Gli efficaci laboratori a cui abbiamo partecipato al Madre sono un’ottima riprova che un museo d’arte contemporanea a misura di bambino non solo è possibile, ma forse vi è geneticamente votato. Va detto tuttavia che, a viverlo con gli occhi dei bambini, un piccolo problema al Madre l’abbiamo trovato: i bagni. Gli orinatoi sono a un’altezza decisamente imbarazzante per chiunque – come un bambino o come pure lo scrivente – non raggiunga il metro e settanta di statura. Ma forse nemmeno questo va visto come un ostacolo, ma solo come un altro modo per chiarire l’inadeguatezza dell’uomo di fronte al grande mistero dell’arte.
Emanuele Leone Emblema
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