CRAC. Dieci anni a Cremona
Il racconto dei magnifici dieci anni del CRAC di Cremona. Un'importante esperienza di educazione e formazione che guardava all’arte contemporanea. E che si è purtroppo conclusa.
Il viaggio decennale del CRAC – Centro Ricerca Arte Contemporanea di Cremona, nato dalla passione di Dino Ferruzzi e inaugurato ufficialmente “lunedì 18 ottobre alle ore 18:30 del 2004”, è uno dei più eleganti e coinvolgenti dell’asse educazione-formazione che oggi, in Italia, vive un tracollo epocale. Tra il 2004 appunto e il 2014, guidati dalla stella maestra di un’attività sociale organizzata e partecipata, gli attori del CRAC (Ferdinando Ardigò, Dino Ferruzzi, Giorgio Guerini, Gianna Paola Machiavelli, Alberto Mori e Roberta Pagliari) hanno dato vita, in una scuola di provincia – e a volte, bisogna ammetterlo, è la provincia a farsi centro –, a un’esperienza esclusiva, capace di coniugare arte, educazione, formazione, lavoro e spazio pubblico mediante un processo curatoriale che riprende in mano il “prendersi cura dell’altro per prendersi cura di sé” (Platone), per costruire un prato nutriente, un ambiente lontano dall’arida proposta didattica della “buona scuola”.
“Il percorso dell’offerta formativa e di apprendimento attivata dal CRAC è stato un modo per riflettere e aprire un dialogo tra l’arte, l’educazione e la politica, uno spazio dedicato alla relazione e alla conversazione”, avvisa Dino Ferruzzi nel testo in calce. “Si tratta, quindi, di intendere tutto lo spazio delle relazioni come qualcosa che ha a che fare con la vita attiva che è la vita in potenza, se però questa dimensione di potenzialità ci è permessa di esprimerla. Questa vita in potenza non può che essere una condizione politica, un atteggiamento di ricerca per comprendere meglio […] in che mondo siamo, per vedere dove accade ciò che ci diciamo”.
IL PROGRAMMA EDUCATIVO
Con uno sguardo attento a decifrare, a sperimentare e a ottimizzare le metodologie dei tanti studiosi legati all’innovazione scolastica (Lamberto Borghi, Aldo Capitini, John Dewey, Danilo Dolci, Don Milani, Célestin Freinet, Paulo Freire, Ivan Illich, Maria Montessori, Giorgio Nonveiller, Paolo Perticari, Enrico Pestalozzi e Jean Piaget ne sono alcuni) e con il desiderio di impegnarsi per “ripensare la scuola dal suo interno”, il CRAC ha plasmato negli anni un programma educativo che, se da una parte ha trasformato il modello punitivo in intervento creativo e riflessivo, dall’altra ha svolto una reale azione didattica la cui offerta si è mossa sul duplice binario a scuola | fuori scuola per spaziare dall’attività espositiva (intesa come momento di confronto costruttivo) al workshop, dalla conferenza al convegno, dal rapporto tra scuola e territorio alla coltivazione di curiosità extradidattiche.
“L’esperienza del CRAC”, suggerisce ancora Ferruzzi, che sul progetto ha scritto, tra l’altro, un volume prezioso (Ten Years 2004-2014, Postmedia Books, 2016), “si è rivelato un progetto anomalo nella scuola pubblica italiana, se si dovesse trovare un’altra definizione per raccontare questo luogo, si potrebbe senz’altro pensare ad una zona di confine da cui hanno transitato idee, opere, persone, nel tentativo di dare vita a forme di comunicazione inedite, una ricerca-azione che ci ha permesso di riflettere, in tutta la sua criticità, sia dei sistemi educativi, che del sistema dell’arte”.
UN PROGETTO IN DIVENIRE
Accanto a una serie di importanti eventi effimeri – le mostre, i workshop o i convegni – la nascita di progetti duraturi e in continuo aggiornamento come l’Archivio e la Biblioteca votata all’arte contemporanea, segnano nel perimetro del CRAC importanti e indispensabili punti didattici intesi come aree d’incontro, di dibattito, di informazione in itinere.
Figlio di una idea progettuale in divenire – nato “dall’impegno di alcuni insegnanti/artisti” dotati di fervore (come non pensare agli entusiasmi di Albino Bernardini) – il CRAC è stato l’esempio più chiaro di una visione meta-didattica che non si è soffermata soltanto all’analisi degli strumenti ma ha anche abbinato a queste apparecchiature primarie il desiderio di crescere insieme, di lavorare con la regola e il caso, di attendere l’inatteso lavorando sul campo, di accedere a un vocabolario di idee polifoniche (lontane da educrazie e pedocrazie asfissianti o peggio ancora soffocanti) dove ognuno ha acceso una candela timida, ognuno ha dato qualcosa, ognuno ha donato la propria passione.
Quello che resta del CRAC è un ricordo vivo e indimenticabile, un segno sulla piattaforma della pedagogia e della didattica dell’arte difficile da cancellare: e di sicuro indispensabile se si vuole ricominciare a fare sul serio nella scuola italiana d’oggi.
PAROLA A DINO FERRUZZI
Quando mi ritrovo a parlare dell’esperienza decennale del CRAC ‒ Centro Ricerca Arte Contemporanea, nato nel 2004 all’interno del Liceo Artistico Statale Bruno Munari di Cremona, esperienza interrotta bruscamente nel 2014, mi piace sempre iniziare con una citazione di Paulo Freire, perché racchiude in poche parole ciò che può essere inteso come educazione e apprendimento: “L’idea della libertà acquista il suo pieno significato solo quando si identifica con la lotta concreta degli uomini per la liberazione” (P. Freire, L’educazione come pratica della libertà).
Per Freire liberazione è sinonimo di umanizzazione, percorso che non si realizza all’interno delle coscienze, ma dentro la storia che deve essere messa in atto e trasformata ininterrottamente.
La nascita di un contenitore culturale nella scuola come il CRAC, che potrei definire una pratica sociale, non è altro che un corpo in potenza liberato dall’immaginario comune della vita quotidiana del fare scuola, una pratica di vita molto vicina all’idea di umanizzazione freiriana.
Ora penso che l’esperienza intessuta con gli studenti in questi anni ci abbia portato, come afferma Paolo Perticari nel suo libro (Attesi imprevisti), a “compiere un vero e proprio esodo dal clima pedagogico che si respira a scuola”.
Questa voluta esigenza di liberazione, in cui ci siamo accorti di esistere e non solo di vivere, ci ha permesso di recuperare la capacità di decidere, di ascoltarsi gli uni con gli altri, di dare un senso alle parole, di far rinascere il nostro lavoro sottraendolo a tutti quegli elementi oppressivi, fatti di ripetitività e di gregarismi. Elementi, quest’ultimi, che caratterizzano lo scenario politico del nostro tempo in trasformazione, dove lo spazio dell’economia, della vita e quello della politica si intrecciano e si separano, dove la scuola e l’educativo diventano oggetti performativi della nuova economia della merce e dello scambio.
NON SOLO INTRATTENIMENTO
L’esperienza educativa non può essere ridotta così a una pratica dell’intrattenimento, ma è conoscenza trasformata in una fertile azione che coincide con le nostre vite ordinarie.
Nell’abitare una casa familiarizzata, penso che il processo educativo, cioè il rapporto tra chi insegna e chi apprende, diventi un atto performativo totale, in cui spazi e corpi si incontrano in un contesto di relazioni, nella materialità dei desideri, dei progetti, degli affetti, e ciò non può che tradursi in una sfida ai luoghi comuni in cui sono relegati i nostri corpi, lo spazio scuola e l’educativo in generale.
Come accade quando si assiste a un atto performativo, l’atto educativo costruisce un tempo di attese, un tempo del fare come evento e come processualità, e un tempo del fare mentre lo si pratica.
L’insegnante deve attivare continuamente degli elementi di reciprocità, il suo essere corpo nella relazione con l’altro, con i propri studenti, è un continuo congiungimento tra pensiero e azione, tra essere e fare.
Questi, in effetti, sono i fondamenti anche di certa pratica dell’arte, una pratica liberatoria, cosciente, o meglio di coscientizzazione, (P. Freire), cioè un atto per sollecitare un nuovo senso delle cose, nell’irrompere di qualcosa di sorprendente e di inatteso.
Questa prassi comunicativa-performativa coincide con la pratica educativa, tanto da poter affermare che il processo educativo è un atto di libertà, è coscienza critica e trasformazione della realtà.
Ecco, allora, che le pratiche liberatorie dell’educativo devono essere inquadrate a partire da quello che succede oggi, da questo nostro tempo che è il tempo del dominio dell’economia, per capire come riposizionarsi fuori dagli spazi standardizzati, per trovare delle possibilità di creazione che possano produrre dei cambiamenti, allenandosi a fare esercizi di esodo.
Il percorso dell’offerta formativa e di apprendimento attivato dal CRAC è stato un modo per riflettere e aprire un dialogo tra l’arte, l’educazione e la politica, uno spazio dedicato alla relazione e alla conversazione.
VITA IN POTENZA
Si tratta, quindi, di intendere tutto lo spazio delle relazioni come qualcosa che ha a che fare con la vita attiva che è la vita in potenza, se però questa dimensione di potenzialità ci è permesso di esprimerla.
Questa vita in potenza non può che essere una condizione politica, un atteggiamento di ricerca per comprendere meglio, come si diceva, in che mondo siamo, per vedere dove accade ciò che ci diciamo.
L’esperienza del CRAC si è rilevata un progetto anomalo nella scuola pubblica italiana, se si dovesse trovare un’altra definizione per raccontare questo luogo, si potrebbe senz’altro pensare a una zona di confine da cui hanno transitato idee, opere, persone, nel tentativo di dare vita a forme di comunicazione inedite, una ricerca-azione che ci ha permesso di riflettere, in tutta la sua criticità, sia dei sistemi educativi che del sistema dell’arte.
‒ Antonello Tolve e Dino Ferruzzi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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