Insegnare il digitale. BigRock raccontata da Marco Savini
Si chiama BigRock. Institute of Magic Technologies ed è una delle eccellenze italiane nel campo della didattica a contenuto tecnologico. Parte integrante di H-Farm, centro di innovazione con sede a Ca’ Tron, in provincia di Treviso, cui è dedicata la rubrica “Educational” sul nuovo numero di Artribune Magazine, BigRock offre un programma formativo che spazia dalla computer grafica alla virtual reality. Ne abbiamo parlato con il fondatore, Marco Savini.
BigRock. Institute of Magic Technologies nasce nel 2005 da un’idea di Marco Savini, ex-pilota dell’aeronautica militare, e nel giro di pochissimi anni diviene un’eccellenza italiana per quanto riguarda la formazione di giovani in computer grafica, in concept art e in virtual reality. Oggi è parte del programma Education di H-Farm (la piattaforma che supporta “la creazione di nuovi modelli d’impresa e la trasformazione ed educazione dei giovani e delle aziende italiane in un’ottica digitale”) e forma ogni anno centinaia giovani, il cui tasso di occupazione, nei primi 12 mesi dopo il diploma, supera il 70%.
Quando e come nasce l’idea di creare una scuola di alta formazione artistica in materia di computer grafica?
Quando abbiamo aperto il primo training center, la computer grafica era usata solo in ambiti particolari, come quello militare o architettonico, perché computer e software erano costosissimi. Ero però convinto che da lì a poco i prezzi si sarebbero abbassati e che il problema di imparare a usare il software sarebbe stato sostituito dalla difficoltà di dare in mano la matita a un artista. Era fondamentale, secondo me, equiparare l’apprendimento del software e quello della matita con la grafite, per spostare l’attenzione dal come al cosa disegnare. È nata così l’idea di creare BigRock, una scuola che dà per scontato l’uso della tecnologia, che trasmette ai ragazzi il concetto di computer come strumento e che insegna agli artisti a sfruttare nel proprio lavoro le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie.
La vostra offerta formativa si basa su master intensivi altamente specializzati e a numero chiuso. In quale modo avvicinate i ragazzi all’uso quotidiano dei new media?
La nostra offerta formativa si struttura in tre tipologie di corsi. Il primo, computer grafica, è il più generico perché propone uno sguardo panoramico su una molteplicità di materie. Il secondo è il master dedicato alla virtual reality, dove si impara tutto ciò che concerne la realtà virtuale o real time, dal videogioco alla visualizzazione su device che non sono monitor (come ologrammi e visori). L’ultimo è il master di concept art, che insegna ai ragazzi a diventare concept artist, ovvero chi si occupa di ideare, attraverso una serie di disegni, i concept dei personaggi da presentare al regista.
I corsi non richiedono prerequisiti di accesso in termini di conoscenze e competenze tecniche.
In computer grafica non è richiesto alcun tipo di prerequisito perché partiamo completamente da zero. Abbiamo solo un numero chiuso che è di cento ragazzi: il centouno va al master successivo. Nel master in virtual reality facciamo un piccolo colloquio di ammissione perché vogliamo essere sicuri che il ragazzo abbia scelto bene. Infatti, sia in virtual reality, sia in concept art, proponiamo un minor numero di materie trattate in maniera molto specifica ed è importante assicurarsi che i ragazzi siano consapevoli e sicuri del percorso scelto, per scongiurare il rischio di trovarsi iscritti a un corso dove non si studia quello che ci si aspetta.
Dal punto di vista della didattica, in cosa consiste il vostro metodo e quali sono i suoi punti di forza?
Per prima cosa spieghiamo ai ragazzi che il software è solo un mezzo e le nostre lezioni agevolano l’apprendimento del software. Nella seconda fase del nostro training chiediamo una produzione autonoma. Di conseguenza i ragazzi cominciano, in maniera quasi naturale, ad approcciare i vari software in modo completamente diverso rispetto a un corso canonico, basato sulla spiegazione dei vari menù attraverso il manuale.
Illustriamo ai ragazzi gli strumenti che il software mette a disposizione tramite esempi pratici e lezioni teoriche e spieghiamo loro che i vari programmi sono come i Lego e possono essere combinati (Photoshop, ad esempio, può essere usato in dialogo con Maya, ZBrush e tanti altri software) per ottenere il risultato desiderato, che deve essere bello. Faccio un esempio pratico: quando a scuola, in terzo superiore, ti chiedono un disegno, non ti chiedono di farlo con una determinata penna o con una particolare tecnica, l’importante è l’effetto finale. Sei tu a scegliere il foglio, la penna e il metodo. Da noi accade lo stesso: diamo una consegna e gli studenti sono liberi di usare i software che vogliono, come vogliono per ottenere il risultato.
Come concretizzate questo metodo?
Per mettere in pratica questo metodo dividiamo le lezioni in due parti: una pratica e una sul software. Faccio un esempio: invece di fare lezione sui menù di Photoshop, facciamo prima un corso di fotografia dove presentiamo i vari effetti che si possono ottenere modificando le luci. Solamente in un secondo momento passiamo a Photoshop e mostriamo come intervenire digitalmente sulle immagini ottenute (per esempio usando la Rim Light o altre tecniche). La stessa cosa avviene nel render perché, prima di fare modellazione al computer, facciamo lavorare la plastilina con le mani per creare un personaggio 3D. Una volta capito come funziona la modellazione manuale, spieghiamo ai ragazzi che in Maya al posto delle mani usano forme come la piramide o il cilindro.
Che cosa ne consegue?
Si inizia a vedere il software come una matita un po’ più evoluta, che apre una possibilità digitale in più. Nella realtà, ad esempio, non hai la funzione undo (la possibilità di tornare indietro) mentre nel software sì. I ragazzi, in questo modo non si vedono più limitati dal software e invece di dire: “Voglio quell’effetto, però per ottenerlo devo prima imparare Photoshop, che è il mio incubo e preferisco disegnare con la penna”, dicono: “Uso Photoshop al posto della penna, perché così posso tornare indietro”. E questo metodo ci permette di dare in mano agli artisti degli strumenti molto potenti, ottenendo risultati veramente importanti nel giro di poco tempo, dato che i corsi durano sei mesi.
Oltre al metodo di apprendimento, quali sono gli altri elementi che rendono l’esperienza didattica proposta da BigRock unica?
La cosa più importante di BigRock, nel modo più totale e assoluto, è il personale, perché una scuola è fatta da insegnanti e non da software o da strumenti.
Scegliamo accuratamente i nostri docenti e la prima regola è che devono essere stati ex-corsisti. Non assumiamo nessuno che non sia passato da BigRock, perché vogliamo che sappia cosa si prova a stare dietro il banco di questa scuola. Per farlo abbiamo un iter particolare: di ogni corso teniamo i dieci migliori, che chiamiamo RED e che stanno con noi per altri sei mesi. Questo ci garantisce intanto di trovare persone competenti e fuori scala (formiamo circa quattrocento persone l’anno e, tra queste, ogni volta teniamo solo chi secondo noi è più carismatico e più portato all’insegnamento). Sono loro a fare la differenza in classe. Per esempio, se alle elementari avevi un professore di matematica molto bravo e affascinante, la matematica era appassionante; al contrario, un incontro sfortunato rendeva la matematica il tuo peggiore incubo. E dipende dall’insegnante.
Qual è il profilo dei vostri insegnanti?
Tutti i nostri insegnanti sono davvero carismatici, perché li scegliamo con il lanternino. Solitamente restano con noi una media di tre o quattro anni, qualcuno di più – se si vuole fermare, ovviamente, è bene accetto – poi quando iniziano a essere saturi dell’esperienza di insegnamento, ne facciamo subentrare di nuovi. Dopo aver lavorato come insegnante a BigRock si trova lavoro in tutto il mondo, perché si ha facile accesso a tutte le più importanti case di produzione cinematografica. Il risultato finale – che è anche il segreto di BigRock – è che abbiamo sempre docenti che hanno veramente tanta voglia di fare l’insegnante e di cambiarti la vita.
Hai appena menzionato il programma RED. Che cos’è nello specifico?
Nel nostro contratto c’è scritto che si pagano dodici mesi di corso, ma siamo noi a selezionare chi può accedere agli ultimi sei mesi: dopo il primo semestre, i ragazzi mandano spontaneamente una lettera RED, dove ci danno il consenso a essere scelti o meno. Tra tutti (ogni sei mesi sono circa duecento) scegliamo i dieci migliori – o quindici migliori, dipende dalla disponibilità che abbiamo in quel periodo – e li chiamiamo RED.
I RED stanno con noi per altri sei mesi, nel corso dei quali svolgono due tipologie di lavori: uno commissionato da un’azienda esterna e l’altro completamente a piacere, in cui devono dimostrare di essere pazzeschi presentando progetti fuori scala che mettano insieme nuove tecnologie.
Quale percorso hanno compiuto?
I RED sono un misto tra RED di virtual reality, che lavorano prevalentemente in real time, RED di concept art e RED di computer grafica, che realizzano poi fisicamente il 3D, il filmato e gli effetti speciali. Insieme creano lavori che, basta vederli, sono abbastanza impressionanti – abbiamo un sito che si chiama red.bigrock.it, dove raccogliamo tutti i lavori di ogni sessione di RED.
Conclusi questi ulteriori sei mesi, al successivo Graduation Day (a distanza di un anno), comunichiamo ai ragazzi l’elenco di chi riceverà un contratto a tempo determinato. Quindi passano altri sei mesi con noi stipendiati da BigRock come insegnanti e, se si trovano bene, offriamo loro un contratto a tempo indeterminato.
Quali sono le prospettive occupazionali dei bigrockers quando decidono di lasciare l’insegnamento?
Il pensiero comune è che se insegni non sai fare o che se fai non insegni, oppure che l’insegnante sia una persona che non è riuscita a fare il professionista. In realtà da noi è l’esatto contrario: un docente, lavorando con noi per due, tre o quattro anni, impara a gestire centinaia di persone contemporaneamente e a coordinare squadre da decine e decine di individui, perché poi i ragazzi lavorano tutti insieme quando fanno la tesi.
L’insegnante che esce da BigRock è una persona che sa usare il software in maniera impeccabile e in ogni suo inimmaginabile dettaglio, che ha provato a esprimersi artisticamente supervisionando decine o centinaia di persone ed è una risorsa in un’azienda. In genere le aziende trovano il singolo professionista in grado di fare bene il suo lavoro ma che fatica a lavorare in gruppo o che ha bisogno di anni prima riuscire a mettere insieme i cervelli di più persone. Al contrario quando un insegnante esce da BigRock è già pronto e le aziende lo rubano ancora prima che esca dalla scuola.
La tecnologia è in continua evoluzione e lavorare nell’ambito della computer grafica, della concept art e della virtual reality implica una idea di apprendimento continuo. Quali sono secondo te le competenze fondamentali che i ragazzi devono apprendere per riuscire poi a muoversi in un ambiente lavorativo così particolare?
La prima cosa che devono apprendere è il saper lavorare in gruppo, perché le produzioni cinematografiche si realizzano in migliaia di persone e non da soli. Per cui in un film o in una produzione di un certo livello non c’è il mago o lo scienziato che da solo fa tutto il film. Anzi, banalmente, ci sono tremila persone mediocri che, messe insieme, fanno ciò che una persona da sola non riuscirebbe mai a fare in tutta la sua vita, perché quando lavoriamo tutti insieme facciamo delle cose meravigliose. Per cui la prima cosa che devono imparare è lavorare in gruppo per poter essere parte di un ingranaggio ed è, secondo me, una delle cose più difficili in assoluto.
E la seconda?
La seconda è imparare a padroneggiare la tecnologia. Oggi c’è Photoshop, domani ci sarà un altro programma e tra qualche mese si farà tutto con gli ologrammi. Quindi è importante lasciare la vecchia mentalità, secondo cui, ad esempio, è sufficiente aver fatto il corso di Photoshop e teoria del colore per lavorare, perché quando la stampa verrà sostituita dall’iPad o si segue un altro corso sull’iPad o si è rovinati, e adottare una mentalità diversa, secondo cui, che sia la stampa, che sia l’iPad, che sia l’ologramma, è il contenuto a fare la differenza. È importante essere consapevoli che un software vale l’altro: se oggi usi Photoshop, domani Paintshop Pro o Pixelmator, alla fine quello che conta è come è scattata la foto o come hai fatto il disegno ed è una qualità che hai o non hai. Facendo un paragone concreto, è come andare dal cartolaio e scegliere la matita semplicemente in base a come ti sta in mano, non è che dici: “A scuola mi hanno insegnato a usare la 2B. Basta, io per tutta la vita userò la 2B. La 3H? Boh, devo fare un corso per usare la 3H”. A BigRock è uguale: Maya o 3D Studio Max, è indifferente; qualsiasi software va bene, basta ottenere il risultato. Questo le aziende lo pagano, perché è una cosa che apprezzano tantissimo e se i ragazzi hanno queste due qualità direi che sono a posto.
I master che proponete a BigRock sono rivolti a ragazzi in possesso di un diploma di scuola superiore. Avete invece dei programmi specifici per i più piccoli?
Per i ragazzi più piccoli abbiamo fatto un po’ di esperimenti negli ultimi due anni e abbiamo lavorato facendo summer camp estivi in un villaggio turistico vicino a Spiaggia Romea, dove di mattina facciamo lezione con i ragazzi della Regione Lazio, con il loro cellulare, per far vedere loro che il cellulare non serve solo ad accedere a Instagram o a Facebook. Mostriamo loro che nella maggior parte dei casi hanno in mano una telecamera da 4K o almeno Full HD – che è la risoluzione di ogni televisore che abbiamo a casa – e che con quella già si possono fare effetti speciali, video e che si possono raccontare un sacco di storie.
Noi portiamo i computer, facciamo usare After Effects (un software tipo Photoshop, però per i video) e insegniamo a fare qualche piccolo effetto speciale usando le riprese fatte dal telefono. Lì cominciano a capire che la tecnologia non è un nemico, ma uno strumento con cui ci si può esprimere anche senza attrezzature costose, dato che, oramai, anche un cellulare da duecento euro registra almeno in Full HD. Quindi cominciano a dire: “Wow! C’è un mondo oltre a quello che vedo normalmente”. Mentre ai bambini più piccoli (dai cinque anni) facciamo fare maquette, cioè la trasformazione di un loro disegno in 2D su un foglio in un pupazzetto in 3D. E anche lì cominciamo a spiegargli un po’ come funziona lo spazio.
Recentemente i vostri sviluppatori hanno messo a punto un progetto estremamente innovativo che verrà attivato dall’H-International School proprio a partire dal nuovo anno scolastico, all’interno del quale la realtà virtuale diviene strumento in grado di ampliare le capacità di apprendimento. Di che cosa si tratta?
È un progetto abbastanza fuori scala che abbiamo in BigRock da un po’ e che stiamo sviluppando internamente. Quest’anno abbiamo fatto la prima prova su gente esterna.
L’idea originaria è stata quella di mettere nelle scuole, dalle elementari alle superiori, una stanza – come se fosse la stanza di fisica, di educazione fisica o di chimica – che abbiamo chiamato Holodeck (lo stesso ponte di ologrammi che c’è su Star Trek, il film). In Star Trek quando l’equipaggio dell’astronave che viaggia nello spazio vuole andare, ad esempio, alle Maldive, si reca nell’Holodeck. Schiacciando un tasto, la stanza si modifica e si trasforma nelle Maldive e, premendolo di nuovo, torna completamente vuota.
Volevamo fare la stessa cosa sui ragazzi. Il problema è che indossare il visore vuol dire isolarsi completamente dall’esterno e questa cosa non collima con la scuola, che deve invece essere un’esperienza di condivisione.
Come vi siete mossi, allora?
Abbiamo inventato questo sistema per cui quando metti il visore, per un particolare motivo, l’ambiente si trasforma, ma in realtà continui a vedere anche i tuoi compagni di classe. Banalmente, quando noi a BigRock facciamo lezione di anatomia ai ragazzi della classe di computer grafica, li portiamo nell’Holodeck, loro si mettono il visore e possono: camminare intorno al modello, vedersi tra di loro, parlare tra di loro, parlare con l’insegnante. E possono farlo in locale, cioè nella stessa stanza (quindi se io allungo la mano e tocco l’altra persona la tocco proprio, perché ce l’ho davanti a me); oppure l’insegnante può essere in remoto, nel senso che l’insegnante che io vedo, ma che non posso toccare, è dall’altra parte del mondo: è lì nella stanza che mi sta facendo fare il giro dello scheletro, ma è fisicamente da un’altra parte.
Questo sistema l’abbiamo provato con circa duecento ragazzini dell’International School, dalle elementari fino alle superiori. Gli abbiamo fatto fare una lezione di astronomia su come mandiamo una sonda, che si chiamava Cassini, dalla Terra fino su Saturno e su che cosa va a fare questa sonda su Saturno. Gli abbiamo spiegato come si fa a mandare in orbita, quali sono le orbite, cos’è una traiettoria e a cosa serve un missile. Ci ha colpito molto che due o tre ragazzini in particolare, parlando tra di loro, dicessero: “Ma senti: io non ho capito, ma questo pezzo qua a cosa serve?”. In realtà loro si stavano parlando, ma non si vedevano: stavano dando per scontato di essere in questa stanza virtuale e l’insegnante li ha anche dovuti richiamare dicendogli: “Ragazzi state attenti che sto parlando io!”. L’hanno vissuta come una lezione in una classe normale e sono abbastanza impazziti.
Sembrerebbe un ottimo strumento di apprendimento.
È uno strumento di apprendimento molto efficace se viene affiancato alla lezione normale: l’insegnante di astronomia spiega la teoria in classe, poi, recandoti in questo posto, vedi proprio la Terra, il missile che parte, vedi una traiettoria com’è fatta, la formula come cambia e, vedendola, ti resta più impressa. È come avere un libro animato. Per esempio c’è una fase in cui facciamo vedere il Saturno V (il missile che ha spedito in orbita l’Apollo), che è alto 150 metri. All’interno dell’Holodeck abbiamo predisposto l’apertura virtuale del soffitto, per mostrare un razzo di 150 metri ai ragazzi, che in questo modo riuscivano a percepire le proporzioni. Gli abbiamo fatto anche vedere l’Apollo 13 sul tavolino (che è più o meno largo 8 metri), poi gli abbiamo detto: “Ragazzi giratevi, quello che vedete dietro di voi è in scala 1:1”. Quindi loro sono andati a vedere com’è fatto l’Apollo, ci giravano intorno e vedevano 8 metri di sonda e dicevano: “Cavolo, è grande!”.
È uno strumento che può affiancare anche altre lezioni. In alcuni casi facciamo vedere com’è fatto il Parlamento: i ragazzi mettono i visori e sono tutti seduti in una fila del Parlamento, vedono cosa succede, provano a votare, si parlano tra di loro – mentre nella realtà dovresti portarli proprio nel Parlamento. Oppure la Divina Commedia la racconta Dante: tu cammini insieme a Dante attraverso l’inferno e c’è lui che ti parla (che in realtà è il tuo professore, però dentro a VR lo mascheriamo da Dante) e non è automatico, nel senso che se tu gli fai una domanda lui ti risponde e ti guarda, indica, ci parli: è abbastanza fantascientifico.
‒ Giulia Perugini
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