Educazione e istituzioni culturali. Cosa va migliorato?
Scuola e musei sono gli organismi che giocano un ruolo chiave all’interno del processo educativo. Nell’ottica di una didattica a distanza che potrebbe diventare norma, quali strategie vanno messe in campo per rinforzare il dialogo fra questi due ambiti?
Nel memorabile romanzo di García Márquez passano esattamente 53 anni prima che la storia d’amore tra Florentino Ariza e Fermina Daza si consumi. Solo nelle ultime pagine de L’amore ai tempi del colera i due protagonisti infatti si amano in una suite di un battello che attraversa la foresta pluviale colombiana, oramai disboscata, senza animali, devastata dal colera. Il tempo si ferma e forte torna nelle loro vite il senso della priorità, il necessario. Un diverso seppur violento colera ha disboscato le nostre istituzioni. Ma di che cosa le ha private esattamente? E soprattutto che cosa il virus ha fatto riscoprire come necessario? L’emergenza sanitaria, che costituisce in questo contesto il fatto storico, è stata all’origine della chiusura della stragrande maggioranza dei luoghi di area geografica centro-occidentale ritenuti cruciali nella mappa del sistema della cultura contemporanea.
Mai come in questo momento forse le istituzioni sono costrette a ripensare se stesse in tempi urgenti ma anche e soprattutto in relazione al dopo emergenza. Se infatti in risposta all’adesso si sono moltiplicate le iniziative di produzione culturale – per lo più su modello del palinsesto radiofonico –, è la questione della educazione il tema che emerge sempre più chiaramente come stato di necessità delle istituzioni del domani.
Il virus, oltre alla rete ospedaliera, ha fortemente messo in crisi un altro sistema infrastrutturale della nostra società: la scuola. Il sistema scolastico, dalla scuola d’infanzia alla università, si è trovato improvvisamente alle prese con il cosiddetto distance-learning o e-learning, un tentativo molto complesso e spesso non democratico ‒ chi ha la connessione e chi no, chi ha più laptop e chi no, chi sa districarsi tra piattaforme e chi no ecc. ecc. – di educazione a distanza che azzera completamente la socialità, principio sul quale si basa moltissimo del sistema scolastico, e ha coinvolto le famiglie, unite, divise, allargate, piccole o grandi in un unico salvagente di contenimento del problema che impara a sua volta mentre insegna. Mai come oggi capiamo che questa enorme difficoltà ci ha spinto a iniziare a immagine nuovi spazi della didattica che non sono e forse non potranno più essere la classe, l’aula così come l’abbiamo conosciuta sino a ieri. Ma non solo. Mai come oggi ci rendiamo conto di quanto sia necessaria l’educazione e anche una serie di processi di educazione diversa, mancina, di un learning, che passi dalla consapevolezza dei limiti del sistema di riferimento che abbiamo costruito, della necessità di una educazione che attraversa le generazioni poiché appartiene allo stesso livello a tutte le fasi della vita e una educazione che al contempo sia l’inizio di una nuova infrastruttura che non si limiti a recuperare i vincitori dei concorsi e dotare di nuovi sistemi operativi le scuole, ma integri il patrimonio dei musei italiani, la cultura delle immagini che anticipa di secoli questo trasloco forzato del digitale nel quale ci troviamo a lavorare e a studiare, con il sistema scolastico. E integrazione è una parola importante. Perché se non altro è solo con l’integrazione che i processi democratici hanno inizio.
L’EDUCAZIONA ATTRAVERSO L’ARTE
Nella foresta disboscata dal COVID-19, alla macro immagine di un ex deposito di carrozze come l’OGR, che da centro per l’arte diventa ospedale da campo, possiamo accostare una immagine al microscopio. Le istituzioni oggi appaiono all’interno della inquadratura 1:1 di Instagram. Un Marconi del futuro, uno strumento di distribuzione delle immagini che è diventato la cornice di ogni produzione culturale. Un unico potente display all’interno del quale la creatività dei singoli curatori si scatena.
Ma qui dentro le istituzioni riscoprono il loro DNA e, chi più chi meno, con format e forme più o meno riuscite, fanno educazione. Educazione nel senso etimologico della parola: il tirare fuori, portare alla luce quello che non si vede ‒ ricordando, come diceva Bruno Munari, che “uno vede ciò che sa”. I saperi di cui sono custodi i musei sono la filiera alimentare della cultura. Quella che non si ferma, quella senza decreto, quella che ci dà la possibilità ‒ ancora ‒di uscire di casa. E saperli raccontare significa arrivare dove ancora i sistemi educativi del nostro Paese non sono riusciti ad arrivare. Arrivare a quella democrazia della storia dell’arte ‒una accessibilità non superficiale, che non rinuncia alla complessità ma evita di parlare solo di se stessa – è forse una delle sfide più appassionanti che il nostro colera ci pone. Un progetto educativo che sfida non solo nuove tipologie di spazi dell’educazione, ma conferma la necessità dei musei come servizio. Un progetto che riprenda in forma attuale l’idea di una Education through Art scritta da Herbert Read nel 1943. La centralità delle storie delle arti e la centralità della relazione tra educazione e istituzione nei processi didattici è forse dunque una delle più straordinarie opportunità del nostro colera. Tra musei ed educazione esiste un amore lontano, mai consumato davvero. E questa relazione ha degli effetti dirompenti. Perché il virus in un attimo ha costretto le istituzioni a ripensare l’intero sistema di priorità sul quale i musei sono stati valutati per più di cinquant’anni. Se è vero forse che dalla fine degli Anni Sessanta in poi il fenomeno esposizioni, e la filiera che si portano dietro, ha “ritoccato” gli asset delle istituzioni, che faccia ha il museo acqua e sapone? Di che cosa non possiamo fare a meno? Anche nell’utilizzo delle tecnologie dobbiamo andare tutti a scuola. E mai come ora stiamo facendo esperienza “dell’imparare facendo”.
Quando infatti passerà lo stato confusionale nel quale ci troviamo, che ci fa confondere il pubblico con i follower, quando il tempo di fruizione della conversazione uscirà dalla logica dell’episodio di Netflix tornando a dare alle istituzioni il peso di luoghi dei tempi e non di un unico tempo, quando il tema della gratuità dei contenuti lascerà il passo a una riflessione sulla valorizzazione digitale del patrimonio di una istituzione, allora la coppia museo-educazione potrebbe e forse dovrebbe fare scintille. Perché se è vero che il digitale non è solo un trasloco temporaneo, se è vero che dal distance learning che faticosamente stanno affrontando milioni di studenti e insegnanti di ogni istituto non si torna indietro, se gli esami di terza media li facciamo online cosi come le lauree in Bocconi, allora perché in un Paese economicamente scosso da una crisi sanitaria anche il museo non può tornare a fare educazione? E quali sono allora in questa prospettiva le competenze necessarie? Il curatore, che sappiamo essere una professione recente, legata squisitamente alla fiera e filiera delle esposizioni, che competenze dovrà avere?
IL MUSEO È UNA SCUOLA
A oggi la risposta generosa alla richiesta di produzione di contenuti online del ministro Franceschini ha visto curatori dimenticare i principali criteri di valutazione del museo – numero di visitatori, biglietteria, rassegna stampa, partecipazione diretta del pubblico ‒ per provare a immaginare in tempo reale una nuova forma di consenso. Gratuità, educazione del pubblico, valorizzazione delle collezioni, ispirazione per gli artisti del futuro: letti uno dopo l’altro questi “nuovi” asset della produzione culturale sono forse meno freschi di quanto ci potessimo immaginare, perché sono i pilastri sui quali l’idea stessa di museo è nato alla fine del XVIII secolo. Il museo è una scuola, il museo è una piattaforma; il museo è memoria e patrimonio, il museo è networking e comunità; il museo è storia e cronologia, il museo è racconto e anacronismo: cambia la terminologia, si aggiornano le tecnologie, ma la sostanza del discorso non cambia.
E questo è un bene. La produzione di contenuti completamente gratuiti quasi totalmente legati al settore educazione e storytelling cui stiamo assistendo in queste ore è, seppur nella urgenza e velocità, più utile delle forme di intrattenimento. E le mostre spesso fanno parte di questa seconda categoria. Ne abbiamo davvero bisogno? La capitalizzazione architettonica della collezione (il suo edificio) e la frenesia delle esposizioni cedono il passo alla divulgazione e al tempo dilatato su una singola opera. E non stupisce che in clima di “filiere necessarie” la prima a saltare del comparto dell’economia culturale sia proprio quella delle esposizioni. Ma come si cura l’educazione? Come si integra il mondo della scuola con quello del museo sorpassando il modello di subornazione alle mostre, alle tendenze, alle visioni del curatore, alle relazioni con il board, alle innegabili necessità di allineamento con il sistema dell’arte?
Forse proprio l’Italia, con il suo imbarazzante patrimonio artistico e la sua straordinaria esperienza di modelli scolastici radicali e la capillare rete di sistema educativo pubblico, potrebbe lavorare anche a una didattica a distanza dedicata a chi al museo vorrebbe continuare ad andare e a chi magari non c’è mai andato.
‒ Paola Nicolin
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