Musei, didattica e pandemia. Parla la GAMeC di Bergamo
A cosa può servire l’arte in tempo di pandemia? Ne abbiamo parlato con Giovanna Brambilla, Responsabile Servizi Educativi presso la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, mai come in questi giorni protagonista.
Mi piace pensare, soprattutto oggi, che chi ha scelto l’arte come materia di studio e/o professione conosce il dolore, o meglio abbia qualche strumento in più per affrontarlo, conosca tante storie che aiutano a sublimarlo o almeno a raccontarlo ‒ che è già un bel passo avanti. Anche tu stai sperimentando questo? A cosa serve o può servire l’arte in tempo di pandemia?
Credo che chi ha studiato l’arte o chi lavora nel campo museale sia, in questo momento, come tutti, in una situazione di prostrazione e dolore, ma non credo che abbia più mezzi per sublimarlo. Provo a spiegarmi: come storica dell’arte ho attraversato con lo sguardo e con lo studio un numero infinito di opere che hanno avuto a che fare con il dolore, se ne sono fatte carico, hanno cercato di caricarlo di senso o hanno coraggiosamente negato ogni giustificazione alla sofferenza. C’è dolore nel Cenacolo di Leonardo, diventato, non a caso, in numerose varianti, uno dei meme più diffusi, dolore in Guernica, in Balkan Baroque della Abramović e nella foto in cui Ai Weiwei posa come il piccolo Aylan Kurdi. Sono rappresentazioni, e noi che le guardiamo “nelle nostre tiepide case”, come diceva Levi, siamo spettatori, o al massimo testimoni, ma non per questo ci dotiamo di strumenti, noi restiamo inermi, come tutti. L’arte però qualcosa insegna, su qualcosa non viene meno: la lunga pratica di vita in mezzo alle opere acuisce la vista, nel bombardamento di immagini ci fa trovare una strada, ci può fare riconoscere le trovate comunicative di bieca propaganda, gli sguardi coraggiosi di chi rende testimonianza severa, e può dare forma, alfabeto visivo, a quello che proviamo, questo nel microcosmo emotivo.
E più in generale?
Con uno sguardo più generale, l’arte indirizza la nostra riflessione, perché sappiamo che è il codice con cui gli artisti hanno partecipato ai corsi e ai ricorsi della storia, spesso in modo profetico o anticipatore, da cronisti o rabdomanti. L’arte ha spesso scosso le coscienze, invitato a uno spirito critico. Carlo Sini aveva detto, con una felice espressione, che l’arte è la soglia dell’umano, adesso lo è a maggior ragione, è un paradigma che ci invita a prendere delle decisioni, e le voci che vengono dagli artisti sono spesso più lucide delle voci della cronaca. Nel mondo dell’arte non è quasi mai stata usata la metafora della guerra e del nemico, forse perché c’è più attenzione alla pericolosità delle metafore, mentre il mondo della comunicazione di massa trabocca di “caduti”, “trincea”, “nemico”, “armi”, “guerra”, addirittura “munizioni”. Ecco, forse l’arte ci ha sempre insegnato che nella maggior parte dei casi il nemico siamo noi, come nelle opere citate all’inizio, e quindi ha messo l’accento su altre parole: pericolo, dovere, futuro, collettività, sostegno, dolore.
Ascoltando le interviste dei direttori dei musei italiani, spesso si sente parlare di un’impossibilità di scegliere tra le opere una preferita perché sono tutte come i figli, di una mancanza fisica delle opere al pari di quella provata per amici di lunga data. Insomma, emerge un senso di cura che va al di là della tutela giuridica. Quanto ti manca lo spazio GAMeC, girare per le stanze, stare a tu per tu con le tue opere preferite?
Lo spazio in sé non mi manca, ma non fraintendermi, provo a spiegarmi. Mi manca, come a tutti, la libertà di movimento e di uscire, ma credo che questo #iorestoacasa sia una politica necessaria e il museo ‒ non lo spazio ‒ la GAMeC ‒ non come luogo ‒ mi mancano terribilmente, perché non ho mai vissuto la Galleria come un’entità fisica, come l’edificio di Gregotti, come le sale dove sono allestite le opere, ma come un’occasione di incontro. Non mi mancano le sale, ma i passi, non i dipinti appesi o le installazioni allestite, ma gli sguardi che a quelle opere danno vita. Nel testo teatrale Dare a Cesare di Marguerite Yourcenar, la scrittrice cita i musei di Roma, di notte, e scrive: “Le rovine dei monumenti antichi fanno corpo con la notte […]. Alla Triennale d’Arte Moderna, i quadri non son più che dei rettangoli di tela montati su telai, inegualmente incrostati da uno strato di colori che al momento tendono al nero […].” Per me è così. Non riesco a immaginare le opere “senza”. Senza lo sguardo stupito delle classi, la meraviglia condivisa delle famiglie durante i laboratori, il tempo di sosta e di osservazione interrogante di educatrici ed educatori, davanti ai lavoro degli artisti, quando si preparano su una mostra, le passeggiate ricche di memorie dirette e commenti di socie e soci del GAMeC Club, la voce di studentesse e studenti che media nelle spiegazioni ai propri coetanei, l’incontro sempre ricco di meraviglie ed emozione con i disabili e gli anziani, e le opere portate virtualmente “fuori” per incontrare i detenuti della Casa Circondariale di Bergamo. Ecco, mi manca questo, il sapere essere luogo di scambio, confronto, apprendimento, stupore, mi mancano i passi, le voci, il cortile abitato, il telefono che suona. E mi manca la mostra di Antonio Rovaldi, appena inaugurata, che raccontava il waterfront dei cinque distretti di New York, la solitudine degli spazi di confine, visti non come margini ma come presidi di resilienza e luogo di accadimento di eventi silenziosi, perché davanti a quelle fotografie si sarebbero dispiegate delle attività condotte da ragazze adolescenti inserite in percorsi per l’autonomia, famiglie, bambine e bambini avrebbero partecipato a laboratori sul terzo paesaggio, con il Festival Orlando avremmo condotto percorsi sulla diversità di genere… Però posso sceglierla un’opera, non mi sottraggo: November 27, 2017 / Inside Fairview Park, esposta in mostra, mi racconta. Sedie vuote nel bosco. Questa è l’immagine della mancanza della GAMeC, delle persone che non ci sono.
In questo momento più che mai penso sia importante e utile rispettare i ruoli e fare ognuno ciò che può nel proprio ambito, con la propria comunità. Sei d’accordo? e come sta reagendo o rispondendo la comunità della GAMeC in un momento di così profondo e trasversale dolore nel vostro territorio?
Vorrei partire da una definizione che non c’è: l’anno scorso, alla conferenza generale di ICOM, tenuta a Kyoto, al centro dell’attenzione era una modifica della definizione di Museo. La questione richiederà del tempo, non è stata ancora risolta, ma la proposta di ICOM Italia è stata questa: “Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, accessibile, che opera in un sistema di relazioni al servizio della società e del suo sviluppo sostenibile. Effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità”. Sistema di relazioni, e comunità, ecco i due cardini in cui io, nel mio lavoro, mi riconosco. Ai musei viene richiesta in primis l’accountability, una parola che unisce rendicontazione e responsabilità, ovvero correttezza sul piano economico ma anche dovere di rendere conto delle proprie azioni, in relazione alla propria funzione, davanti alla collettività, non solo davanti ai fruitori delle collezioni e delle mostre, ma a tutti. Virtualmente il Museo, luogo che fa memoria, è patrimonio di tutti. Così ci siamo interrogati, insieme a Lorenzo Giusti, nostro direttore, tutti noi dello staff, con una condivisione e un brainstorming davvero appassionato.
A quali riflessioni siete giunti?
Il punto non era solo come rispondere alla nostra chiusura, ma qual era la strada migliore da prendere. Su questo abbiamo fatto delle scelte controcorrente. Senza nulla togliere a molte operazioni legate al digitale, che quando sono di qualità offrono davvero un servizio, abbiamo pensato che la priorità non fossero le opere. Era l’identità di museo come luogo attraversato dalla storia. Così ecco prima la campagna #Pleasedonate al servizio dell’ospedale cittadino, con brevi video di artisti, del direttore, di persone che gravitano intorno al museo, che hanno lanciato questo appello. Poi, a seguire, Radio GAMeC, che trasmette tutti i giorni (e martedì, giorno di chiusura del museo, fa “il punto”), mezz’ora di informazione e approfondimenti tra cronaca, arte, letteratura e società, con un flusso di voci vicine e lontane per gettare nuovi ponti e non smettere di creare. Sono intervenuti Bruno Bozzetto, ma anche Jerry Scotti, Michela Murgia, Mauro Baronchelli, Formafantasma, Hans Ulrich Obrist, Stefano Boeri, insieme a esponenti della cultura più “local”, ma sempre di rilievo. Ci sono le nostre opere lì? No, perché pensiamo che un museo possa essere un faro, non una torre di avvistamento (guerra), ma un segnalatore di rotta.
E cosa avete messo in campo come Servizi Educativi?
La stessa cosa. Non abbiamo dato una risposta veloce, perché la nostra città ha coabitato, in questo mese, con una necropoli che si sovrapponeva alla città dei vivi. Ogni casa ha avuto un suo vuoto. Quello che alla fine abbiamo deciso di fare, proprio come Radio GAMeC, è stato lavorare sulla tenuta dei legami. Dire che ci si siamo, e che riteniamo nostro compito identitario, come Museo, essere un presidio di relazioni, con l’arte come terreno di scambio, certo, ma l’arte nella sua massima estensione, non limitata al perimetro della nostra esistenza. Per questo abbiamo attivato gli ARTROOM; partendo dalla ormai notissima classroom, spazio virtuale di lavoro della GSuite, abbiamo dato il via a dodici laboratori gratuiti online, in diretta, in cui nostre educatrici e i nostri educatori conducono alla scoperta dell’arte, attraverso un’attività laboratoriale, bambine e bambini privati soprattutto della socialità. Ci sono una ventina di iscritti, che in questo spazio possono guardarsi con curiosità, parlare tra di loro e con noi, dare via libera alla propria fantasia. Certo, è anche un modo per mantenere la promessa di tenere laboratori sulla mostra di Antonio Rovaldi quando questa era aperta, quindi le sue fotografie ritornano a respirare, all’interno di un contesto di dialogo e scambi. Stiamo poi mettendo online dei quaderni operativi, invitando docenti e genitori a usarli come strumento di sollecitazione creativa per figlie, figli e per le classi, ma raccomandando di mandarci i lavoro svolti, per ricevere un feedback. Questo, di nuovo, perché ci interessa il processo, lo stare in contatto, e non il risultato. Infine abbiamo scritto a insegnanti e famiglie ‒ attraverso una mailing list articolata ‒ per confermare la nostra totale disponibilità a supportarli e a confrontarci con quelle che possono essere le competenze nostre e della GAMeC.
Riesci a intravedere come sarà il rientro? In cosa le modalità di fruire l’arte cambieranno, come si modificheranno i nostri corpi e i nostri recettori? Io amo pensare che i guanti che ora siamo obbligati a indossare siano un esercizio del tatto di marinettiana memoria (vedi il Manifesto del Tattilismo), che ci preparerà, condensando la voglia di toccare, a godere dei nostri sensi in maniera più consapevole. Lo ritieni uno scenario credibile oppure saremo tutti molto più diffidenti, pieni di paure e quindi di limiti e barriere?
Credo che da un lato chi sta lavorando sulla presenza del museo, ognuno con le sue strategie, spera che non ci sia stata davvero un’uscita, nel senso totale, di cesura, di blackout. Però il rientro alla normalità sarà lento. Credo come te che i sensi ne usciranno molto più allertati, ma al tempo stesso molto più esposti e quindi fragili, capaci di trasmettere, nel bene e nel male, quello che ci circonda. Ci sarà più che diffidenza paura, la condivisione fisica di luoghi e tempi andrà mediata e accompagnata ponendosi la sicurezza e lo stare bene come assoluta priorità. Allo stesso modo ‒ parlo per la GAMeC, ma so che anche in molte altre realtà la questione è accesa ‒ l’attenzione, ora, è molto alta proprio sul “che fare?”, inteso su come onorare i nostri doveri etici, il nostro essere parte di una collettività e di un territorio, non importa quanto esteso. Si dovrà fare i conti con riprogettazioni e ridefinizioni, cercare di valorizzare le professionalità che ruotano intorno al museo, perché educatrici ed educatori sono e saranno strategici per una ricostruzione di questo ritorno delle persone alla GAMeC. Ma oltre al lavoro sull’“in”, sarà altrettanto prioritario, per noi, come lo è anche adesso, un lavoro sull’“out”. Con i cittadini, e non solo con i visitatori, stiamo progettando, sin da ora, percorsi legati alla gestione del tempo passato in solitudine, e vogliamo riuscire a essere luogo capace di fare memoria e testimonianza anche del dolore delle perdite; noi che viviamo del passaggio di consegne dalla cultura da una generazione all’altra dovremo e vorremo fare i conti con la scomparsa di un’ampia parte della generazione dei portatori di sapere, con l’idea che l’arte possa essere uno strumento di accompagnamento a una ripresa, e che la GAMeC riesca, ancora una volta, a costruire una mediazione attenta e partecipata tra la vita, il pensiero e il suo rendersi visibile con l’arte.
‒ Annalisa Trasatti
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