Didattica performativa a Bologna. Intervista con Silvia Spadoni
La didattica dell’arte come con-fusione, come affabulazione, come crescita identitaria. Intervista a Silvia Spadoni tra le aule dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e il MAMbo, dove continua a condurre laboratori didattici.
Silvia Spadoni è una figura atipica nel mondo della didattica museale. Docente all’Accademia di Belle Arti di Bologna e attiva all’interno del Dipartimento educativo del MAMbo, mixa teoria e pratica con una spiccata presenza teatrale e performativa.
Come e quando hai capito che la pedagogia e didattica dell’arte sarebbe stata la tua “direzione di senso”?
I miei studi mi hanno sempre fatto saltare come un grillo dalla pratica dell’arte alla teoria, dalla storia dell’arte alla filosofia. Volevo diventare un’artista ma ha prevalso il piacere per lo studio. E poi l’idea di fare l’artista mi spaventava non poco… mi iscrissi alla Facoltà di Filosofia e contemporaneamente al primo anno di Accademia di Belle Arti, allora era possibile. Lo studio era molto impegnativo e così decisi momentaneamente di mettere nel cassetto il mio primo sogno. Per guadagnare un po’ di soldi mi occupavo di un gruppo di bambine che amavano dipingere e così per la prima volta iniziai a sperimentare piccole attività di laboratorio, ad andare con loro nei musei, a parlare dei grandi artisti. Mi piaceva, mi sentivo in sintonia con loro, non temevo il loro giudizio e scoprii così quanto era importante la mia parte bambina.
E adesso succede ancora?
Sì, in particolari momenti della mia vita, il mio vissuto di bambina prende il sopravvento, si palesa con urgenza, manifesta la necessità di interloquire con la realtà che mi circonda. Questo fenomeno si attiva in momenti caratterizzati da un forte coinvolgimento emotivo o dalla vicinanza di bambini. Credo di avere un buon rapporto con il mio mondo interiore infantile e quindi provo una sana attrazione nei confronti dei giovani. Mi incuriosiscono più che gli adulti, mi suscitano immediata simpatia – intendo questo termine nella sua significazione originaria –, i loro visi, le loro espressioni, le loro provocazioni, i loro gesti esercitano su di me un potere straniante, mi aprono mondi, mi divertono e mi commuovono. Così una volta terminati gli studi capii che poteva avere senso mettere insieme i miei due grandi amori: l’arte e l’infanzia.
Dove hai mosso i primi passi professionali?
Iniziai a insegnare a contratto Disegno infantile alla Facoltà di Scienze dell’Educazione di Reggio Emilia: scoprii l’importanza di conoscere l’arte contemporanea per meglio avvicinarsi alle produzioni dei bambini, non per un presunto valore artistico di queste, ma per via della loro natura ambigua. Di fatto, in entrambi i casi è necessario essere in piccola parte co-autori, identificarsi emotivamente per cogliere i significati e scoprire così che né un’opera d’arte né un disegno infantile possono avere un’unica interpretazione. Voglio però aggiungere altre due motivazioni importanti riguardo alla mia storia…
Parliamone!
In tutto il mio percorso scolastico, dalle elementari all’università, ho patito l’assenza di bravi maestri, così ho scelto di insegnare e di farlo con passione, per riscattare questo sentimento di frustrazione. Ma soprattutto aiutare bambine e bambini a capire l’importanza della cultura e insieme le loro predisposizioni, le loro passioni, il loro stile, il loro daimon, direbbe Socrate, perché la scuola, come sosteneva Franco Calamandrei, deve essere un incubatore di destini, solo così ha senso. In ultimo, ma non per importanza, sono cresciuta in una famiglia di grandi narratori, il ruolo dominante apparteneva a mia nonna paterna, la capostipite dalla parte italiana. La sua ottima memoria e le sue doti narrative rendevano i suoi racconti interessanti anche alle mie orecchie di bambina, nonostante si trattasse sempre di storie legate alla guerra. Il suo tono di voce profondo e un po’ maschile, che credo di aver ereditato, le conferiva un’autorevolezza e una convinzione che l’animava in tutto il corpo, era un’attrice mancata. Mi incantava ascoltarla e così cominciai anche io a raccontare storie e favole, a me stessa e alle mie cugine più piccole.
Ecco quindi spiegata la tua passione per la narrazione.
Sì, la narrazione dell’arte è diventata così la mia più autentica passione, il mio cavallo di battaglia. Credo con convinzione che per insegnare bene sia necessario saper raccontare e possedere anche un po’ di quell’aura, di quel luccichio proprio agli artisti, agli attori, questo è il motivo per il quale, nel tempo, ho fatto mie alcune strategie teatrali. A tutto questo devo aggiungere che negli anni cruciali delle scelte professionali ho avuto la fortuna di incontrare persone speciali, amiche e amici con i quali ho condiviso ulteriori studi di pedagogia e didattica dell’arte, sperimentazioni, pratiche di laboratorio… gli strumenti del nostro mestiere. Con loro sono partita nelle imprese più belle e azzardate, come quando abbiamo creato il Dipartimento Educativo alla GAM di Bologna, attuale MAMbo, era il lontano 1997.
E poi è iniziata l’avventura del Dipartimento di Comunicazione Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Bologna, dove ancora insegni.
Con Cristina Francucci e altre colleghe abbiamo messo in piedi un Dipartimento di Comunicazione Didattica dell’Arte, correva l’anno 2000. Mancava in Italia un percorso di studi che preparasse i giovani al nostro mestiere, un corso speciale capace di offrire competenze che unissero lo studio della storia dell’arte, dell’estetica, della teoria, con la pratica dell’arte: la conoscenza diretta dei processi creativi che preludono alla realizzazione dell’opera. All’università, al DAMS, tutto questo mancava, e manca ancora. Il grande insegnamento di Luciano Anceschi, che poneva al centro delle sue riflessioni in campo estetico l’officina dell’artista, non venivano prese in considerazione. Intendo l’aspetto laboratoriale, la pratica dell’arte, non la speculazione ovviamente, che all’epoca dei miei studi era di alta qualità. Così abbiamo preso noi il suo testimone e ne abbiamo fatto la nostra cifra stilistica, pedagogicamente parlando. Il Dipartimento è cresciuto rapidamente, arricchendosi di caratteristiche didattiche innovative, workshop con artisti, sperimentazioni nei musei, avviamento alle pratiche di mediazione dell’arte, della curatela, dell’insegnamento nelle scuole ecc.
Di cosa si occupa il tuo corso?
È destinato agli studenti del Biennio Specialistico di Didattica dell’Arte e Mediazione del Patrimonio Artistico. Si sviluppa su un’intera annualità e approfondisce e chiama in causa diversi campi di studio come l’estetica, la filosofia e la pedagogia di impronta fenomenologica.
Come lavori con i tuoi studenti?
Affronto anche periodi cruciali della storia, come l’epoca della frattura epistemologica dell’arte contemporanea, basilare per i cambiamenti avvenuti anche in merito alla fruizione dell’opera d’arte. La scelta di approfondire le dinamiche della fruizione è a mio avviso fondamentale: ancora oggi molti insegnanti hanno difficoltà a far apprezzare le opere ai loro studenti, le opere sono affrontate come testi a sé stanti, quando invece sappiamo come un’opera d’arte necessiti di un interlocutore per prendere vita. Si perde così un’occasione pedagogica preziosa, perché scoprire la ricchezza di un’esperienza estetica di fruizione porta a una crescita identitaria importantissima. Conoscere i propri gusti e il loro cambiare nel tempo agisce a macchia d’olio.
Cosa intendi?
Voglio dire che offre l’opportunità di saggiare la complessità dell’esistenza e della cultura di cui facciamo parte, consentendoci di intravedere un orizzonte di senso della nostra vita più ampio e sicuramente più significativo. Un altro elemento che caratterizza il mio lavoro è l’interdisciplinarità. Per ogni argomento che tratto cerco di interpellare sempre molte voci: poeti, scrittori, filosofi, antropologi, psicoanalisti, registi. E il percorso così si arricchisce, diventa stimolante, e i ragazzi scoprono la bella complessità del sapere. Inoltre, quando preparo una lezione, mescolo, allo studio dei testi che prendo in esame, parte della mia vita, i film che vedo, la buona cucina, i romanzi che leggo, un bel temporale, le discussioni politiche, le passeggiate con la Nina (il mio cane), le conversazioni con gli amici. Trovo giusto che i miei studenti conoscano la disciplina che insegno a partire anche dall’esperienza che io ne faccio, e non solo come studiosa. Come dico sempre in classe: mi piace la “con-fusione”. La confusione nel senso di mescolanza, di interdisciplinarità, appunto.
E poi c’è la parte di sperimentazione pratica, i laboratori. Che succede a quel punto?
Si tratta di cimentarsi in prima persona in pratiche artistiche che hanno l’obiettivo di portare i partecipanti a “sporcarsi le mani”, sono gli artisti allora ad indicare la strada. Faccio tesoro dei loro scritti, dei processi poetici che si palesano spesso solo nei loro atelier. A conclusione del tutto c’è il workshop sulla narrazione dell’arte, ogni anno interpello attori con i quali programmo un percorso di quaranta ore che si svolge al MAMbo. Si individua un tema e si lavora sulle opere esposte, i ragazzi imparano a dar voce alle opere servendosi delle strategie teatrali indispensabili per fare il nostro mestiere. Si tratta di vivificare un quadro o un’installazione servendosi delle parole ma anche del corpo, quindi dei gesti, della mimica, del tono della voce che sempre si deve adattare al pubblico e alla natura intrinseca del testo artistico. Lo scopo è quello di far conoscere la poetica di un artista attraverso modalità inconsuete capaci di suscitare nel pubblico fascinazione e favorire così la condivisione del sapere attraverso un contagio poetico che dalla fruizione dell’opera unita alla narrazione, avvia a processi creativi inediti. Nel tempo ho coinvolto Marco Baliani, Bruno Stori, Roberto Anglisani, Renata Palminiello ecc.
Quali sono i libri, gli autori, gli artisti per te perenne fonte di ispirazione?
I miei grandi amori… Tra i filosofi: Merleau-Ponty, Didi-Huberman, Carlo Sini, Remo Bodei; tra gli psichiatri e psicoanalisti: Didier Anzieu, Eugenio Borgna, Antonio di Benedetto; tra i poeti: Paul Valéry, Rainer Maria Rilke, Mariangela Gualtieri; tra gli artisti è più difficile la scelta, sono volubile. Poi ci sono i registi che hanno lavorato con i bambini, uno per tutti François Truffaut, l’affettuosa complicità che stabiliva con i suoi giovani attori era frutto di un processo di identificazione straordinario, oltre che di un’urgenza di lavorare, attraverso la creazione, trattando un pezzo di vita che per lui aveva rappresentato una grande sofferenza. Di recente ho visto Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, un vero capolavoro! Di sicuro l’anno prossimo ne farò oggetto di indagine con i miei nuovi studenti.
La tua esperienza professionale è legata anche al MAMbo. L’esperienza sul campo e la sua traduzione in speculazione pedagogica e didattica come parti di uno stesso processo?
Ai bambini devo molto: mi hanno insegnato a lavorare con gli adulti, a fare lezione, a parlare in pubblico, a sgranare un’opera d’arte, a farla parlare, ad ascoltare. I bambini sono giudici terribili, se non ingrani con la giusta energia ti smascherano subito. Ma se funzioni sei ripagata e impari tanto da loro. Si tratta di trovare parole e modalità diverse. Quelle specifiche riguardano non solo la narrazione e il linguaggio, ma possono concernere anche le azioni da compiere, mi riferisco a un’idea pragmatica di laboratorio, ma anche alle capacità comunicative necessarie per coinvolgere attivamente i bambini o i ragazzi. Ci vuole sempre un poco di teatralità. Amo farmi riconoscere dai bambini come un soggetto interessante, attraente e divertente.
Insomma, prepararsi a condurre un laboratorio è un po’ come entrare in scena, ogni volta è diverso e magico?
Esatto! Quando mi preparo per condurre un percorso in mostra con dei bambini o degli adolescenti, curo l’abbigliamento e l’insieme della mia persona nei dettagli per valorizzare un gusto particolare, uno stile. In fondo mi preparo a una piccola entrata in scena. La cura di sé non è separabile dalla cura per gli altri. Queste capacità devono però sempre essere permeate da una buona dose di senso dell’umorismo. Mai prendersi sul serio, anche nei momenti difficili. In conclusione posso proprio affermare che il mio lavoro di prof in Accademia non potrebbe funzionare se non avessi l’occasione permanente di confrontarmi con i bambini e con gli adolescenti, per questo continuo a sedermi per terra con loro in cerchio di fronte a un’opera.
Cosa pensi di questa invasione digitale obbligata dal Covid-19? Ne può nascere qualcosa di metodologicamente nuovo?
Temo l’invasione digitale e non ho grandi testimonianze a favore nell’ambito della didattica. Certo che è fondamentale sapersene servire e includere il digitale nell’insegnamento come anche nella didattica museale, ma la scuola è fatta di corpi e questo per me è imprescindibile. Da tre anni lavoro per il Comune di Bologna a un progetto speciale, Bussola d’oro: percorsi educativi erranti. Insieme agli educatori dei centri sociali dislocati nelle periferie abbiamo cercato di coinvolgere ragazzine e ragazzini che difficilmente entrano in contatto con la realtà culturale della città. Ho reimpostato tutto il percorso coinvolgendo i miei studenti dell’Accademia e abbiamo lavorato sugli atelier degli artisti per arrivare a costruire con loro l’habitat ideale a partire dalle sollecitazioni creative dei luoghi dove le opere nascono e crescono. Insieme a ogni partecipante abbiamo immaginato e realizzato con Photoshop un “nido ad arte”. Non è andata male, si sono divertiti, hanno partecipato con passione, ma faticavano a mostrarsi, a interloquire con noi, ad aprirsi come invece facevano dal vero. Ecco la parola giusta, dal vero, è mancato questo, il vero di noi tutti insieme a parlare davvero, a sentire davvero, ad annusarci dal vero, a godere di tutto quello che si determina in un vero incontro. Alla fine del percorso ci siamo salutati con entusiasmo, agitando le mani allo schermo del computer sorridendo imbarazzati, almeno io, mi sono mancati i loro abbracci finali, le loro piroette, i musi imbronciati di quelli che fanno i duri ma che sotto sotto sono stati felici di stare con noi.
Progetti nel cassetto?
Eccome! Ultimamente ho conosciuto Franco Lorenzoni ed è scattata un’immediata sintonia, ho divorato tutti i suoi libri, è un maestro straordinario, Ho imparato tanto da lui e dai suoi piccoli allievi. Vorrei chiamarlo in Accademia e farlo conoscere dal vivo ai miei studenti. Mi ricorda tanto il maestro de Gli anni in tasca di Truffaut. Il discorso finale che fa nel film ai suoi giovani allievi al termine dell’anno scolastico rimane un capolavoro.
– Annalisa Trasatti
www.ababo.it
www.mambo-bologna.org
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