Alta formazione artistica in Italia. Pregi e difetti secondo Marco Scotini
Come è cambiata la formazione artistica in Italia? Quali gli scenari possibili? Quali i necessari cambiamenti? Parte con l’opinione di Marco Scotini l’inchiesta di Artribune
Comincia con Marco Scotini, curatore, docente e direttore del Dipartimento Arti Visive di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti, la survey che Artribune ha condotto sul tema dell’Alta Formazione Artistica. Il tema è oggetto di una importante inchiesta sul numero 57 di Artribune Magazine, che potete trovare in distribuzione in tutta Italia o sfogliare qui. Il presente impone una riflessione necessaria e generale sul mondo della scuola; in particolare quello dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, AFAM, è attraversato da grandi trasformazioni rendendo fondamentale un’analisi sulle potenzialità, ma anche sui possibili scenari e bisogni. Ne abbiamo parlato con i protagonisti (docenti e direttori di Accademie, professori universitari o di scuole di alta formazione artistica) in questa serie di interviste. Partiamo da Milano…
Quali sono i pregi e i difetti dell’alta formazione in campo artistico in Italia?
Una risposta veloce potrebbe essere quella che localizza il problema: per cui è chiaro che in un sistema artistico ancora attardato (tanto a livello istituzionale che di cultura accademica e popolare) come quello italiano, la formazione che lo presiede non può che essere parte integrante di quello stesso contesto. Di fatto il sistema AFAM, a cui fa riferimento la nostra formazione artistica e musicale a livello ministeriale, per quanto possa risultare aggiornato alle riforme del Processo di Bologna, risulta totalmente inadeguato. Ma molte insidie che oggi gravano sul sistema della formazione artistica in generale dipendono anche da quel Processo (fortemente burocratico e centralizzato) che, come tale, si è applicato su un terreno involuto e impreparato.
E dunque?
E dunque non pronto ad una lettura critica o ad una declinazione interpretativa della normativa promossa dalla riforma. Non ultima insidia è quella della recente trasformazione del sistema dell’arte contemporanea in un apparato governamentale di tipo manageriale (biennali, mostre, musei-brand, fondazioni) impantanato nell’appeal del presente e lontano dal promuovere sperimentazione. Eppure non saremo in grado di far fronte a questo scenario se non con un ricorso ad una seria formazione. Ma il problema della cultura attuale mondiale mi pare, non a caso, più quello delle top-ten piuttosto che dell’educazione.
Quali sono i pregi e i difetti a livello formativo dell’istituzione in cui insegni?
Potrebbe risultare ovvio (e di parte) lodare l’istituzione nella quale si opera ma, in questo caso, non è così. Quando sono arrivato in NABA vent’anni fa ho ereditato un percorso accademico classico, per quanto accanto all’arte ci fossero già grafica, moda e design. Ma proprio con l’arte io avevo a che fare e questa risultava divisa in pittura, scultura, ecc. Dunque nel 2003/2004 abbiamo sostituito le discipline canoniche con una scuola di Arti Visive all’altezza della situazione e nel 2006/2007 abbiamo aggiunto il biennio specialistico in arti visive e studi curatoriali. Oggi l’intero percorso formativo in arti visive (a cui si aggiungono due master) copre ogni ambito del sistema dell’arte contemporanea, publishing e mercato compresi.
Una offerta varia…
Soprattutto la faculty risulta interculturale e non più occidentalocentrica, per cui vi si possono trovare docenti di curatela indiani, artisti africani, teorici cinesi. E soprattutto la trasformazione di un classico luogo di formazioni in un sito di produzione, con ambiti di ricerca privilegiati come l’archivio, il genere e l’ecologia. Tutto questo è costato molta fatica e tutt’altro che improvvisazione. Da qualche anno anche la scena artistica milanese è molto cambiata in senso internazionale ma tenere testa alle insidie che ho citato prima è tutt’altro che facile. E se c’è un difetto in Arti Visive NABA, questo lo vedo nell’assenza di un’offerta di PHD.
Quali sono le best practice all’estero che ritieni andrebbero adottate anche in Italia?
Vorrei smitizzare quello stereotipo che fa della formazione UK (e in parte americana) il meglio che si possa incontrare in questo ambito. Basta leggersi il capitolo 6 di “Realismo Capitalista” di Mark Fisher per avere un’idea delle condizioni lavorative nel contesto dell’educazione nelle capitali di lingua inglese.
Hai percepito cambiamenti negli ultimi anni a livello didattico, imputabili a cambiamenti dal punto di vista delle risorse economiche e/o degli interventi ministeriali sui piani di studio e/o degli obiettivi a cui mirano gli studenti?
NABA non afferisce allo Stato dal punto di vista economico, ma quello che posso vedere è una carenza cronica delle risorse nell’istituzione pubblica e nessuna novità negli interventi ministeriali rispetto a piani di studio e obiettivi di ricerca.
Ritieni che vi sia uno scollamento fra l’ambito formativo e il mondo del lavoro, nella fattispecie il “sistema dell’arte”? Se sì, quali strategie andrebbero adottate per colmarlo, ammesso che lo si debba fare?
Ho in parte già risposto a questa domanda e tra i presupposti che mi hanno guidato nella definizione dell’istituzione a cui appartengo, lo scollamento con il lavoro è stato il principale. Ma non solo. Se si vuole formare una coscienza critica nello studente, bisogna fargli conoscere un intero sistema sul quale si troverà ad operare: nel bene e nel male.
Qual è il rapporto con la formazione universitaria? Ritieni che sia complementare o alternativa a quella sviluppata nell’istituzione in cui insegni?
Pur provenendo da studi universitari (e nonostante la trasformazione intercorsa negli ultimi tempi), credo che ambiti come le arti visive e gli studi curatoriali non rientrino nel DNA universitario. In sostanza la proposta accademica è quella di un’operatività fondativa che è negata alle università, ancora tutte attestate sull’esclusivo versante di apprendimento teorico. Mentre la realtà del lavoro non chiede più questo.
A livello di strumenti didattici, ritieni che sia necessario un adeguamento a nuove forme di comunicazione e rapporto con gli studenti, che tengano conto della penetrazione ad esempio di fenomeni come i social network e l’utilizzo della Rete?
Come ignorarli? Ma pure: come leggerli? Le nuove forme di comunicazione possono avere degli aspetti positivi quando tendono a non premiare solo l’istantaneità e il consumo rapido delle informazioni. Altrimenti la complessità di un fenomeno si riduce a pura formula, a sottofondo semplificato, e fa coincidere l’eccesso di comunicazione con la comunicazione del nulla.
Come ha impattato il lockdown e la didattica a distanza sul tuo modo di insegnare? Ritieni che il distanziamento forzato abbia contribuito a sviluppare nuove metodologie?
Ho la stessa percezione della didattica a distanza di quella di un palliativo o un antidolorifico. In questi tempi non se ne può fare a meno ma non guarisce. Ci sono comunque alcuni aspetti che vorrei sfatare: perché il nuovo deve sempre arrivare dalla tecnologia? Si tratta di un mito modernista tutto da dimostrare. Faccio sempre vedere ai miei studenti un video sulla didattica di Joseph Beuys del 1971 che ho fatto tradurre dal tedesco. Rimangono sempre positivamente sconvolti quando vedono che lui lava i piedi alla sua classe. Ecco, questo da remoto non si può proprio fare.
– Santa Nastro e Marco Enrico Giacomelli
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