Alta formazione artistica in Italia. Pregi e difetti secondo Angela Vettese
Come è cambiata la formazione artistica in italia? Quali gli scenari possibili? Quali i necessari cambiamenti? Prosegue con l’opinione di Angela Vettese, docente e direttrice del corso di laurea magistrale di Arti Visive e Moda presso l’Università IUAV di Venezia, l’inchiesta di Artribune
Dopo le interviste a Marco Scotini, Pietro Di Terlizzi, Alessandra Pioselli, Antonello Tolve, prosegue con Angela Vettese, curatrice, docente e direttrice del corso di laurea magistrale di Arti Visive e Moda presso l’Università IUAV di Venezia, la survey che Artribune ha condotto sul tema dell’Alta Formazione Artistica. Il tema è oggetto di una importante inchiesta sul numero 57 di Artribune Magazine, che potete trovare in distribuzione in tutta Italia o sfogliare qui. Il presente impone una riflessione necessaria e generale sul mondo della scuola; in particolare quello dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, AFAM, è attraversato da grandi trasformazioni rendendo fondamentale un’analisi sulle potenzialità, ma anche sui possibili scenari e bisogni. Ne abbiamo parlato con i protagonisti (docenti e direttori di Accademie, professori universitari o di scuole di alta formazione artistica) in questa serie di interviste. Andiamo a Venezia.
Quali sono i pregi e i difetti dell’alta formazione in campo artistico in Italia?
Parlare di Alta Formazione, è molto generico, a meno che non si intenda la cosiddetta AFAM, che comprende Accademie di Belle Arti e Conservatori. Ma anche qui, che dire? Ci sono scuole di buon prestigio e altre meno.
Quali sono i pregi e i difetti a livello formativo dell’istituzione in cui insegni?
All’Università Iuav di Venezia il pregio è prendere uno spritz con gli studenti e il difetto nella mancanza di soldi. Scherzo, ma non del tutto. Essere parte di un’Università statale ha molti aspetti positivi. Primo, richiedere ai docenti di seguire alcuni standard di qualità, valutati da un organo specifico (ANVUR), che ci costringe alla ricerca e che tiene conto della risposta degli studenti a ogni singolo insegnamento. Insomma siamo sorvegliati e mi pare una buona cosa. Inoltre abbiamo un sistema di reclutamento che, per quanto non mi abbia personalmente favorito, ha una sua attenzione per la continuità e il rigore dell’impegno. Rispetto a qualsiasi altro corso consimile in Università e Accademie, inoltre, l’Università Iuav mette a disposizione del Corso di Arti Visive contratti di eccellenza a curatori e artisti internazionali – qualcuno ci ha contestato di sceglierli addirittura troppo noti, ma perché rinunciare a Joan Jonas, Muntadas, Cally Spooner? – con docenti strutturati che insegnano materie soprattutto teoriche: estetica, sociologia, storia dell’arte, semiotica, filosofia dell’arte, cinema e così via.
Come puoi definire dunque lo Iuav?
Siamo un DAMS in cui si fanno applicazioni laboratoriali, siamo un’Accademia in cui la teoria è insegnata da docenti che studiano e pubblicano per dovere, oltre che per piacere. Infine, siamo riusciti a varare delle borse di dottorato specifiche per artisti. Non molte, ma per l’Italia è un modo inedito di concepire la formazione dell’artista. Si può percorrere questo sentiero anche da autodidatti, ma in ogni campo la formazione sta diventando cruciale e anche in quello dell’arte. Sapere difendere il proprio lavoro in modo articolato non è da tutti. Noi cerchiamo di perseguire questo obiettivo: dare a un talento iniziale la possibilità di riconoscersi, formarsi e difendersi.
E i risultati?
Alcuni buoni successi tra coloro che ci hanno seguito, da Elena Mazzi a Diego Tonus come artisti, da Pietro Rigolo a Lisa Andreani come curatori (non me ne vogliano i molti che non nomino) confermano che la strada è stata fertile. Per coloro che non hanno scelto una carriera prettamente creativa, il tasso di placement, cioè coloro che riescono comunque a trovare un lavoro, è molto buono soprattutto grazie alle competenze che riguardano il web e il videomaking. C’è comunque un criterio che non ho mai abbandonato nei vent’anni di corso, ed è quello dello scambio fluido tra discipline nonché tra pensiero, progetto e realizzazione.
Quali sono le best practice all’estero che ritieni andrebbero adottate anche in Italia?
Sono stata a Chicago e ho visto studi d’artista individuali anche a livello di laurea e non solo di PhD. Sono stata al MIT di Boston e ho visto biblioteche immense aperte sempre, 24/7, anche la domenica di Pasqua. Sono stata nella piccola città scozzese di Aberdeen e ho visto una biblioteca polifunzionale con aree per mostre e dibattiti. Sono stata a Oslo e ho visto distribuire fondi importanti per le ricerche di emergenti. Noi non abbiamo, in Italia, servizi di questo tipo. Gli studenti si arrangiano creando spazi no profit, usando luoghi rimediati per esporre le loro opere, affittando case in condivisione che diventano anche atelier, nonostante Venezia abbia sedi pubbliche poco usate e che, da Presidente della Bevilacqua La Masa, avevo sistematicamente utilizzato. E poi c’è questa retorica, che davvero sarebbe ora di abbandonare, per la quale l’artista visivo non ha bisogno di una cultura profonda. Può permettersi di essere poco sistematico, ma mai superficiale.
Hai percepito cambiamenti negli ultimi anni a livello didattico, imputabili a cambiamenti dal punto di vista delle risorse economiche e/o degli interventi ministeriali sui piani di studio e/o degli obiettivi a cui mirano gli studenti?
La legge Gelmini è stata devastante, ha burocratizzato moltissimo e ha tolto libertà d’azione. Ciò detto, non vedo peggioramenti se non dal punto di vista dei finanziamenti. Che non è poco, perché ciò tende a favorire le scuole private che talvolta, con il luccichio delle loro attrezzature e la pubblicità che riescono a pagarsi, si trasformano in specchietti per le allodole ma dimostrano poi scarsa attenzione agli studenti.
Ritieni che vi sia uno scollamento fra l’ambito formativo e il mondo del lavoro, nella fattispecie il “sistema dell’arte”? Se sì, quali strategie andrebbero adottate per colmarlo, ammesso che lo si debba fare?
Il sistema dell’arte è un’ossessione tale che, fosse per me, diminuirei le ambizioni degli studenti per entrarvi e aumenterei il loro desiderio di fare parte di una comunità meno gerarchica, meno regolata, più aperta ai margini. Non credo che sia compito dell’Università insegnare a essere scaltri. Innovativi, semmai, anche nel tipo di relazioni che si desiderano con gallerie e collezionismo. È vero, però che mi ha reso felice trovare i miei studenti a Documenta, a Basilea, alle Biennali, ovunque si realizzasse un evento “di sistema” ma che poteva portarli anche a un aggiornamento.
A livello di strumenti didattici, ritieni che sia necessario un adeguamento a nuove forme di comunicazione e rapporto con gli studenti, che tengano conto della penetrazione ad esempio di fenomeni come i social network e l’utilizzo della Rete?
L’utilizzo della rete è una necessità, la conoscenza dei social e dei loro meccanismi è un optional. La rete resta, i social passano.
Come ha impattato il lockdown e la didattica a distanza sul tuo modo di insegnare? Ritieni che il distanziamento forzato abbia contribuito a sviluppare nuove metodologie?
Ho imparato molto dall’insegnamento in remoto, richiede una maggiore preparazione. Purtroppo non consente un’interazione umana efficace e questo non incide solo “fare amicizia” ma anche nei meccanismi cognitivi, che sono legati all’emozione e favoriti dallo scambio. Da solo, in casa, davanti a uno schermo, uno studente non sente la sfida e impara meno.
– Santa Nastro & Marco Enrico Giacomelli
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