Alta formazione artistica. Temi e problemi
Quali sono i pregi e i difetti dell'alta formazione in campo artistico in Italia? Quali le best practice all'estero che si potrebbero adottare? Come sono cambiate le accademie negli ultimi anni a livello didattico? Esiste uno scollamento fra ambito formativo e mondo del lavoro? Gli strumenti didattici vanno adeguati a nuove forme di comunicazione? Come ha impattato il lockdown e la didattica a distanza? Tante, tantissime domande – e non sono nemmeno tutte. Abbiamo ragionato su presente e futuro della didattica insieme a esperti e professionisti del settore. Qui trovate gli esisti della nostra inchiesta, mentre le interviste integrali ai protagonisti sono linkate all'interno e al fondo dell'articolo.
La pandemia ha messo in discussione il sistema di istruzione nazionale, chiedendo a docenti, direttori e studenti di riconfigurarsi e applicare nuovi metodi di insegnamento e apprendimento. Ma ha anche posto in primo piano punti di forza e criticità a tutti i livelli. Per quanto riguarda l’Alta Formazione Artistica, ad esempio, negli ultimi anni, anche prima che il Covid sparigliasse profondamente le carte, c’è stata una evoluzione notevole. L’offerta è diventata sempre più specifica e ampia: dai corsi ai master, dalle accademie pubbliche alle istituzioni parificate e private, c’è stata una importante corsa a offrire una formazione di grande qualità, con un ventaglio ampio di proposte e con l’urgenza di aggiornarsi per rispondere alle esigenze di un settore che cambia e che si fa sempre più complesso.
LE ACCADEMIE TORNANO PROTAGONISTE
È tornato il ruolo protagonista delle accademie nella formazione degli artisti, con mostre, progetti e operazioni di scouting che vanno via via crescendo e con un corpo docente che si rinnova e che spesso e volentieri “strappa” alle università coloro che poi curano e fanno le mostre, scrivono i libri e costruiscono progetti. Gli anni di studio diventano così anche opportunità di networking, importanti per il “dopo laurea”.
“Il comparto AFAM, nonostante le varie riforme ministeriali che hanno provato in tutti i modi a storpiare la sua natura interna e che forse sono riuscite a devitalizzare il suo aspetto principale, facendolo diventare un mostro con tante teste, resta un baluardo felice per chi ha realmente voglia di apprendere tecniche e materiali”, spiega Antonello Tolve, curatore e docente di Storia dell’Arte presso l’Accademia Albertina di Torino. “Mi riferisco al ramo più strettamente accademico e non coreutico musicale, del migliore artigianato artistico e della migliore industria culturale legata oggi anche all’ampio reparto del disegno industriale, potenziato in tutta una serie di settori vincenti che vanno dal Graphic Design al Fashion Design, dal Light Design all’Interior Design o anche al Sound Design. Nonostante i grandi sforzi di rimodernamento della propria offerta formativa, l’Alta Formazione resta carente negli spazi che dovrebbero essere più accoglienti, ampi e all’avanguardia, come pure nei materiali di laboratorio, spesso visibilmente obsoleti. Ma questo, lo sappiamo, non è per difetto delle amministrazioni accademiche che cercano di sopravvivere, piuttosto di un’incuria che parte dall’alto, da un progetto ministeriale i cui fondi sono sempre mal distribuiti, massicciamente dirottati – e non vuol essere una polemica ma è lo stato di fatto a dirlo – verso le università”, conclude Tolve.
LUCI E OMBRE NELL’ALTA FORMAZIONE
“Credo fortemente che la formazione artistica in Italia sia migliore della sua reputazione”, sostiene Claudia Löffelholz, direttrice della Scuola di alta formazione e del Dipartimento educativo Fondazione Modena Arti Visive. “Le scuole e le accademie svolgono un lavoro fondamentale per le nuove generazioni di artisti: lo confermano l’alta qualità dei lavori nel panorama nazionale e internazionale”.
Tra le ombre, che possiamo definire più che altro situazioni cristallizzate che oggi mostrano tutta la propria debolezza c’è quella – e qui si trovano d’accordo molti dei docenti e direttori che abbiamo coinvolto in questo dibattito – che soggiace a una sorta di “peccato originale”.
“Sono sotto gli occhi di tutti, credo”, spiega Piero Di Terlizzi, artista e direttore della Accademia di Belle Arti di Foggia. “Una riforma, la legge 508/99, mai decollata, anzi, volutamente lasciata nell’oblio a causa della mancanza di ‘cura’ verso il nostro settore artistico. Un settore in cui regna l’improvvisazione: sono decenni oramai che siamo senza applicabilità della legge di riforma del ‘99, per l’assenza dei decreti autorizzativi della governance, sul reclutamento del personale, su sperimentazione e ricerca… Dovendo parlare dei pregi del sistema, devo riconoscere un grande senso di responsabilità di tutti i colleghi, che hanno rivitalizzato delle istituzioni, con l’impegno ad affrontare un’offerta formativa moderna e al passo con i tempi, accollandosi con enormi sacrifici lo sviluppo di indirizzi per i quali ci sarebbe soprattutto bisogno di un ampliamento degli organici, che invece sono rimasti quelli di quarant’anni fa”.
Gli fa eco Alessandra Pioselli, curatrice e direttrice dell’Accademia di Belle Arti “G. Carrara” di Bergamo: “I problemi dell’alta formazione in Italia derivano dal fatto che la riforma proposta con la legge 508/99 non è mai stata portata a compimento. Lo stato giuridico dei docenti AFAM non è stato equiparato a quello dei docenti universitari, non è stato ancora emanato il decreto sul reclutamento della docenza che supererebbe l’attuale modo fondato sulle graduatorie nazionali, non idoneo per un livello terziario di istruzione, le istituzioni AFAM non hanno accesso ai PRIN – Progetti di Rilevante Interesse Nazionale, manca la regolamentazione sui dottorati. La metà dei docenti delle accademie ha contratti co.co.co, una precarietà problematica. L’equiparazione all’università non è effettiva. La legge del 1999 è superata senza che siano usciti tutti i decreti attuativi. Ciò ha lasciato un vuoto, mentre crescevano nuove esigenze formative e relazioni tra accademie, università e mondo della produzione culturale. Meno burocrazia, più flessibilità nella formulazione dei piani di studio, che devono rispondere a parametri rigidi non in sintonia con l’evoluzione delle pratiche artistiche contemporanee, eliminazione della divisione anacronistica dei corsi in Pittura, Scultura, Decorazione ecc., valutazione delle istituzioni per valorizzare le esperienze significative, risorse per gli edifici e le strutture. In molti Paesi europei le accademie sono a pieno titolo strutture universitarie, non in Italia. Da qui conseguono le criticità. Eppure credo che ci siano potenzialità”.
Il problema è anche culturale: la cristallizzazione di cui si parla sopra probabilmente si rispecchia nel mancato riconoscimento generale dell’importanza e del valore dei mestieri creativi. Laddove questi rimangono sempre un gradino più in basso nella percezione collettiva, nonostante la ricchezza e il contributo (anche in termini di tasse) che portano, come può l’istruzione nello stesso ambito ricevere un trattamento differente? “Una risposta veloce potrebbe essere quella che localizza il problema: per cui è chiaro che in un sistema artistico ancora attardato (tanto a livello istituzionale che di cultura accademica e popolare) come quello italiano, la formazione che lo presiede non può che essere parte integrante di quello stesso contesto”, spiega Marco Scotini, curatore e direttore della NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, con sedi a Milano e Roma. “Di fatto il sistema AFAM, per quanto possa risultare aggiornato alle riforme del Processo di Bologna, risulta totalmente inadeguato. Ma molte insidie che oggi gravano sul sistema della formazione artistica in generale dipendono anche da quel Processo (fortemente burocratico e centralizzato) che, come tale, si è applicato su un terreno involuto e impreparato. E dunque non pronto a una lettura critica o a una declinazione interpretativa della normativa promossa dalla riforma. Non ultima insidia è quella della recente trasformazione del sistema dell’arte contemporanea in un apparato governamentale di tipo manageriale (biennali, mostre, musei-brand, fondazioni) impantanato nell’appeal del presente e lontano dal promuovere sperimentazione. Eppure non saremo in grado di far fronte a questo scenario se non con un ricorso a una seria formazione. Ma il problema della cultura attuale mondiale mi pare, non a caso, più quello delle top-ten piuttosto che dell’educazione”.
I problemi sono comuni, ma con origini e responsabilità dissimili nel caso delle università. “La legge Gelmini è stata devastante, ha burocratizzato moltissimo e ha tolto libertà d’azione. Ciò detto, non vedo peggioramenti se non dal punto di vista dei finanziamenti. Che non è poco, perché ciò tende a favorire le scuole private, che talvolta, con il luccichio delle loro attrezzature e la pubblicità che riescono a pagarsi, si trasformano in specchietti per le allodole ma dimostrano poi scarsa attenzione agli studenti”, ci spiega Angela Vettese, critica d’arte e direttrice del corso di laurea magistrale di arti visive e moda presso il Dipartimento di Culture del Progetto dello IUAV di Venezia.
COME È CAMBIATA L’ALTA FORMAZIONE ARTISTICA
Nondimeno l’alta formazione artistica, dicevamo, è cambiata e questa evoluzione è stata repentina, interessando in maniera sostanziale gli ultimi due decenni. Sono appunto cambiati i corsi di studio, ampliando l’offerta dai quattro corsi base delle Accademie di Belle Arti a un bouquet di proposte ampio e variegato, in linea con i tempi, con le esigenze dei territori, con le eccellenze di cui si fanno portatori e con una Italia che pian piano ha riscoperto una vocazione sempre più forte nella fantasia, nell’artigianato e nel cosiddetto made in Italy, rendendo i mestieri creativi sempre più importanti. Si è resa fondamentale una professionalizzazione, inserendo tra le materie di studio laboratori e moduli che preparano i ragazzi al mondo del lavoro. Sono nati scuole, corsi e master che riguardano ambiti specifici, dalla fotografia alla moda, fino alle contaminazioni, sempre più importanti, tra settori. Ma soprattutto sono cambiati gli studenti.
“I programmi di alta formazione gestiti seriamente sono per definizione in continuo rinnovamento, pena l’insuccesso, dato che i partecipanti si iscrivono proprio per essere aggiornati”, racconta Gabi Scardi, curatrice e docente allo IED. “Per quanto riguarda gli studenti, invece, mi pare che sia cambiato il loro stato d’animo, più che i loro obiettivi: soprattutto a partire dalla crisi del 2008, con la contrazione delle possibilità di lavoro, sono sempre più preoccupati, e quindi ansiosi di ottenere risultati a più breve termine possibile. Ho l’impressione che si distinguono leggermente quegli studenti che mirano a un’attività curatoriale propriamente detta: se sono consapevoli della strada che hanno scelto, sono anche tendenzialmente consapevoli del fatto che il percorso sarà più lungo”.
È mutato anche il background: se prima la strada verso la formazione artistica era “segnata” dall’infanzia, oggi la questione assume dei contorni diversi, spiega Di Terlizzi: “Osservo come, in questi anni di crescita, gli studenti sono cambiati, non essendo più unicamente provenienti da scuole per l’istruzione artistica specifica. La richiesta della formazione è sempre più spinta verso il rapporto fra le tecnologie e il mondo del lavoro, sono cambiati offerta formativa e linguaggi della didattica, si sono sempre più rafforzate le esperienze di stage e tirocini in realtà operative e imprenditoriali. Gli obiettivi degli studenti sono legati allo svolgimento laboratoriale sul campo, e noi abbiamo sempre più dedicato risorse nelle produzioni di interesse comuni a molti indirizzi di studio in un incontro interdisciplinare di competenze”.
LA DIDATTICA ONLINE
Le trasformazioni, anche in termini psicologici, sono in corso, e certo la cosiddetta DAD, la didattica online, non mancherà di portarne con sé delle nuove. La situazione in svolgimento ha senz’altro accelerato la necessità per atenei, accademie, scuole pubbliche e private di dotarsi, laddove non presenti in precedenza, di strumenti per lavorare a distanza e per rendere la formazione adeguata agli standard del digitale. Allo stesso tempo si è cominciato a parlare un linguaggio diverso, più vicino a quello degli studenti, per andare loro incontro e per comunicare con loro in un clima di incertezza e instabilità. Via libera dunque ai social network, agli incontri su Zoom con i professionisti, ai progetti online, tutte cose positive che dovrebbero essere portate avanti anche in un regime di normalità (come peraltro molte scuole già facevano). Allo stesso tempo si è potuto così razionalizzare il tema degli spazi e degli spostamenti, una questione che sarà necessario affrontare anche a emergenza finita, dirimente invece nel momento difficile in cui stiamo vivendo per le note e imprescindibili questioni di sicurezza.
Il rovescio della medaglia è ovviamente nell’indebolirsi dell’immediatezza del rapporto umano, tra le punte di diamante della formazione artistica, e nel rendere più difficile lo svolgimento delle attività pratiche, soprattutto quando necessari strumenti e apparecchiature non alla portata di tutti. “L’emergenza Covid-19”, spiega Francesca Giulia Tavanti, Programme Leader Arts all’Istituto Marangoni di Firenze, “ha di fatto velocizzato una serie di processi già in atto da alcuni anni; li ha resi evidenti, necessari e imprescindibili, non solo in riferimento ad alcuni settori specifici, ma in relazione alla sopravvivenza fisica e mentale del singolo individuo. La rivoluzione digitale, per esempio, di cui tanto si sta discutendo anche nei settori dell’arte e della moda, è uno di quei processi a cui la pandemia ha permesso una fortissima accelerazione. La fascinazione per le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e dal virtuale non è infatti qualcosa di nuovo. Lo scorso lockdown ha, però, imposto a tutti noi una relazione completamente inedita. Il digitale era nelle nostre vite prima del Covid, era nelle nostre case, nei nostri rapporti privati e professionali, aveva già modificato le nostre abitudini, la nostra quotidianità e i nostri comportamenti sociali. Se fino all’anno scorso aveva ancora un carattere accessorio, con la quarantena è diventato qualcosa di assolutamente necessario”.
ARTE E SISTEMA DELL’ARTE: LA QUESTIONE OCCUPAZIONALE
Sono tantissime le opportunità a livello formativo, ma spesso la percezione è che la risposta in termini occupazionali non sia adeguata o non in grado di soddisfare il bisogno di tutti. Inoltre, che gli anni di studio e il mondo del lavoro viaggino su binari differenti, creando un distacco tra due universi a volte “troppo paralleli”. Ecco perché, molto frequentemente, dopo l’università i giovani scelgono le vie dei master, nella speranza di avere un accesso facilitato e preferenziale a strade altrimenti molto più inerpicate. Tutto questo però caricherebbe gli studenti di una maggiore ansia, che in qualche misura potrebbe essere controproducente, inficiando quel senso di sperimentazione necessario in fase di crescita. Se alla possibilità di sbagliare, a un sano desiderio anche di ribellione, alla rilassatezza del lavoro in studio, si sostituisce la voglia di arrivare e compiacere un settore che ha già le sue regole, il rischio è alto.
“Il sistema dell’arte”, spiega Vettese, “è un’ossessione tale che, fosse per me, diminuirei le ambizioni degli studenti per entrarvi e aumenterei il loro desiderio di fare parte di una comunità meno gerarchica, meno regolata, più aperta ai margini. Non credo che sia compito dell’università insegnare a essere scaltri. Innovativi, semmai, anche nel tipo di relazioni che si desiderano con gallerie e collezionismo. È vero, però, che mi ha reso felice trovare i miei studenti a Documenta, a Basilea, alle Biennali, ovunque si realizzasse un evento ‘di sistema’ ma che poteva portarli anche a un aggiornamento”.
Come uscire da questa separazione tra due mondi, quando presente? “Lo scollamento dipende da un eccesso di astrattezza dei modelli teorici insegnati, dalla scarsa presenza di materie legate al management in molti corsi di laurea da cui arrivano i futuri operatori della cultura, dalla difficoltà a interpretare in termini di complessità le grandi sfide dei sistemi culturali attuali (complessità intrinseca del prodotto o del processo, dei contesti di riferimento e dei sistemi abilitanti)”, commenta Alessandro Bollo, docente alla 24 Ore Business School e direttore del Polo del 900 di Torino, naturalmente pensando più ai mestieri creativi e meno agli artisti. “Tutto questo potrebbe essere mitigato attraverso una maggiore presenza e contaminazione con chi opera e agisce nelle istituzioni: cattedre a contratto, seminari e laboratori co-progettati assieme alle istituzioni culturali, internship, laboratori on site ecc.”.
Il particolare momento storico che stiamo vivendo inoltre rischia di amplificare questo “eccesso di astrattezza” di cui parla Bollo e richiede agli esperti di formazione un maggiore sforzo e una riflessione condivisa, anche con le istituzioni, sul futuro della didattica, delle nuove generazioni, e in fin dei conti del Paese. “L’attuale panorama internazionale e lo scenario futuro che si sta configurando richiedono una visione completamente nuova, audace”, suggerisce Tavanti. “Per questo motivo abbiamo voluto aggiornare tutti i nostri corsi delle aree di arte, fashion design, business e styling, introducendo al loro interno focus didattici che supportino la preparazione di figure professionali idonee al presente e pronte per le sfide del futuro. Tutti i docenti che insegnano in Istituto Marangoni sono dei professionisti e questo ci permette di modificare in tempo reale i contenuti dei nostri corsi in base alle esigenze del mondo esterno. Ovviamente questo periodo ha richiesto, però, una riflessione più profonda e, di conseguenza, un intervento più strutturato”.
Sono molte e diversificate le prove che ci riserva il futuro: “Tanti creativi italiani si recano all’estero dopo la formazione per trovare condizioni migliori di lavoro, opportunità, supporti economici; un mondo culturale più consolidato e riconosciuto e di conseguenza un differente sistema di welfare”: è il parere di Claudia Löffelholz. “La grande sfida italiana sta proprio lì: alti costi di vita, poche risorse per la cultura, mancanza di previdenza sociale e del riconoscimento economico del lavoro. Nel percorso di formazione artistica – oltre alla parte teorico-pratica – dovremmo trasmettere un know-how su come funziona il sistema dell’arte e come inserirsi, trovare bandi, residenze e finanziamenti, come preparare application e crearsi network e collaborazioni”.
BEST PRACTICE ALL’ESTERO
Tuttavia la pandemia ha reso più difficili gli spostamenti e influito anche dal punto di vista psicologico su chi immagina o ha immaginato un proprio futuro all’estero. Sarebbe anche ipotizzabile una possibile inversione di tendenza, con giovani che scelgono di studiare in Italia e un “ritorno di cervelli” fuggiti tempo fa. Uno scenario che potrebbe rivelarsi positivo, a patto di tenere alto il livello della proposta formativa e dei servizi in dotazione alle scuole e i finanziamenti – biblioteche, studi, borse di studio, fondi per le ricerche emergenti, atelier –, tutte cose che da noi sembrerebbero spesso mancare.
Ma c’è anche chi, come Marco Scotini, la pensa diversamente: “Vorrei smitizzare quello stereotipo che fa della formazione UK (e in parte americana) il meglio che si possa incontrare in questo ambito. Basta leggersi il capitolo 6 di ‘Realismo Capitalista’ di Mark Fisher per avere un’idea delle condizioni lavorative nel contesto dell’educazione nelle capitali di lingua inglese”. O chi, come Alessandra Pioselli, crede sia difficile esportare modelli da contesti differenti. “Ci sono luci e ombre ovunque. Al fine di costruire la rete Erasmus+, come direttrice ho visitato in questi ultimi anni accademie e università in Spagna, Gran Bretagna, Centro e Nord Europa, Medio Oriente e ho incontrato direttori, professori, studenti. Nel confronto ho capito meglio le nostre potenzialità e il valore del nostro patrimonio. Nessuna best practice può essere importata tale e quale, perché i sistemi sono strutturalmente diversi, diversi tra Sud e Nord Europa, diversa è la società. Più che di singole best practice, però, in Italia ci vorrebbe un cambiamento strutturale del sistema che consenta di dargli slancio. All’estero fare il docente è una scelta riconosciuta, rispettata e pagata. Il docente ha uno status sociale. È un fatto culturale, contrattuale, economico. Questo incentiva le buone prassi”.
Le fa eco Bruno Muzzolini, artista e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano: “Servono investimenti economici e sguardi attenti che sappiano ripensare l’alta formazione artistica, sia dal punto didattico sia da quello che concerne un giusto riconoscimento economico e giuridico dei docenti di seconda fascia e dei precari. Non si possono rimandare le trasformazioni che ne facilitino lo sviluppo al passo dei tempi e che contemporaneamente sappiano rivitalizzare l’enorme patrimonio culturale che il nostro Paese ha ereditato”.
– Santa Nastro & Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #57
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