Consiglio Nazionale per l’Alta Formazione Artistica e Musicale. È davvero necessario?
In attività dal 1999 al 2013, il Consiglio Nazionale per l’alta formazione Artistica e Musicale è tornato alla ribalta nel 2022 con l’insediamento di un nuovo Consiglio e l’elezione del presidente Antonio Bisaccia. Ma il critico Renato Barilli ha i suoi dubbi sull’utilità di questo organo
Ho letto su Artribune che il nostro Ministero dell’Università e della Ricerca ha rinnovato un organo, in acronimo CNAM, ovvero Consiglio Nazionale per l’alta formazione Artistica e Musicale. Mi sfrego gli occhi incredulo, in presenza di un déjà-vu clamoroso. Infatti tanti anni fa, non ricordo quanti, sono stato invitato dall’Università a far parte di un organo incaricato più o meno dello stesso compito, il quale naturalmente è stato incapace di tirar fuori un ragno dal buco, soprattutto per l’ostilità della componente musicale. Naturalmente nulla da dire ai danni di Antonio Bisaccia [che in questo articolo spiega le sue ragioni, N.d.R.], preposto alla guida di questo organo, che è un ottimo docente dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, dove ho avuto il piacere di soggiornare per alcuni giorni proprio su suo invito, trattato con ogni riguardo, e con tanti progetti di collaborazione futura. Fra l’altro, Bisaccia dirige una delle poche riviste ancora esistenti nel settore umanistico, Parol, che gli è stata affidata dall’estetologo Luciano Nanni, quando ha deciso di mutare pelle, cominciando dal nome. Ora si fa chiamare Nanni Menetti e conduce interessanti esperimenti d’arte in proprio, detti criografie.
“Purtroppo temo che ancora una volta l’amico Bisaccia e colleghi incontreranno l’ostracismo dei musicologi”.
Ma chi ha letto alcune delle cronache che vengo scrivendo su questa rivista sa bene qual è in merito il mio giudizio: totalmente negativo, è inutile insistere a creare organi intermedi, di cauto avvicinamento, è ora di fondere del tutto le Accademie e simili con le Università. Il grande esempio è dato da Architettura, che da quasi un secolo ha lasciato l’ancoraggio alle Belle Arti per intraprendere un cammino sempre più convinto e sicuro tra gli Atenei, con grande successo, che in qualche caso ne ha pure prodotto un raddoppio, come è avvenuto a Milano. Se le Accademie di Belle Arti si avvicinano sempre più ai Dipartimenti di Architettura, hanno tutto da guadagnare, mettendo tra parentesi le attività nobili sul tipo di pittura e scultura, allo stesso modo che i Dipartimenti di Italianistica non mirano a tirar fuori poeti e narratori, e i DAMS puntano a fare degli esperti in arti ma non direttamente degli artisti. Tra grafica pubblicitaria, design, fumetti, arti decorative, alle Accademie, se si consente loro di procedere a braccetto con le sorelle di Architettura, si spalanca una prateria di possibilità di sbocchi professionali.
Purtroppo temo che ancora una volta l’amico Bisaccia e colleghi incontreranno l’ostracismo dei musicologi per una ragione che mi sembra addirittura di retaggio medievale, perché queste scuole hanno anche i corsi delle scuole medie inferiori, cioè per scolari decenni o poco più, che non trovano nessuna rispondenza sul fronte arti visive, dove semmai si parte dai licei, non prima. Si dice che per diventare dei provetti suonatori di piano si debbano impostare mani e dita già a dieci anni o poco più, il che appunto mi sembra una pratica di sapore medievale, questa pretesa di destinare il futuro di ragazzini alle prime armi, forse solo per compiacere vecchi sogni di gloria dei genitori. Si lasci perdere il pianoforte se impone un simile servaggio, in tempi dove si coltivano aperte possibilità di strumenti e di suoni. Neppure per il seminario oggi si prevede di imporre vocazioni tanto precoci. O in alterativa, si faccia degli studi musicali un’isola confinata in se stessa, mentre le arti visive si svincolino da una simile tirannia, e confluiscano nell’ambito aperto dei dipartimenti universitari dedicati al visivo, costringendo questi ultimi a superare eventuali residue ritrosie e ad accoglierli a braccia aperte.
‒ Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #67
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