Il museo partecipativo fa bene alla salute. Il nuovo incontro del ciclo Open Doors a Brescia

Il museo è deve essere sempre di più una fonte di benessere psicofisico per la comunità a cui appartiene, lavorando a stretto contatto con le istituzioni. Abbiamo chiesto come al professor James O. Pawelski

Il museo come luogo del benessere psicofisico e come fonte di salute e ripresa dal trauma. Ecco il tema del sesto incontro delle talk Open Doors organizzate da Fondazione Brescia Musei insieme a Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali e al Network of European Museum Organizations. Dedicata a La partecipazione che fa stare bene, la discussione – che si terrà il 28 settembre alle 16.30 online e all’auditorium Santa Giulia a Brescia – porterà alla ribalta come le evidenze scientifiche mostrino sempre più chiaramente che la cultura può avere effetti molto positivi sul benessere mentale e sulla salute fisica. Il sistema neuroendocrino umano, indicano gli studi realizzati nel corso degli ultimi anni, è estremamente sensibile alle esperienze che producono una forte risposta cognitiva ed emozionale: l’arte e la bellezza modificano e curano davvero il nostro cervello. Per questo i musei possono diventare nuovi e fondamentali alleati delle istituzioni e degli altri luoghi dedicati alla cura, permettendo a visitatrici e visitatori di maturare una consapevolezza di necessità della bellezza che è più importante che mai in un momento di ripresa dallo stress post-traumatico collettivo lasciato in eredità dalla pandemia. Ne abbiamo parlato con James O. Pawelski, autore docente pluripremiato di teorie dell’insegnamento, fondatore e direttore della formazione presso il Positive Psychology Center dell’Università della Pennsylvania, nonché fondatore e direttore dello Humanities and Human Flourishing Project, nominato National Endowment for the Arts Research Lab.

Il professor James Pawelski Photo (1)

Il professor James Pawelski

OPEN DOORS: IL PROFESSOR PAWELSKI DELL’UNIVERSITÁ DELLA PENNSYLVANIA

Vedere il museo come fonte di benessere ha portato a iniziative come le prescrizioni mediche “museali” a Bruxelles: è la strada giusta?

È uno sviluppo molto importante: per troppo tempo non ci siamo occupati di mettere a disposizione delle persone quel tesoro che è la cultura in un’ottica che non fosse turistica o economica. Ora questa prospettiva sta prendendo slancio, anche grazie al fatto che la pandemia ci ha portato a capire quanto questa sia fondamentale per il nostro benessere. Ma io sono filosofo di formazione, e mi chiedo: perché bisogna essere malati per diventare oggetto di queste attenzioni? Il bene che possono fare i musei, la ricchezza interiore che possono portare, aiuta sia malati sia chi può non diventarlo: stando all’Organizzazione Mondiale della Sanità, “stare bene” è molto più che non essere tecnicamente ammalati. Spesso si fa la metafora del giardino: per raccoglierne i frutti, non basta togliere le erbacce, bisogna seminare. Minimizzare la malattia del corpo e della mente è solo parte del lavoro: bisogna incoraggiare le persone, permettere loro di crescere, portarle le une con le altre. I musei si sono concentrati a lungo sulla storia dell’arte, per esempio, ma ora devono cercare di rispondere a nuove domande: come stimolare questo benessere? Come permettere alle persone di fiorire?

Quanto del benessere che vediamo dalla frequentazione dei musei è biologia e quanto è psicologia?

È una combinazione di entrambe. Anche per questo abbiamo un forte bisogno che gli scienziati di diverse aree di ricerca collaborino con i professionisti museali, che hanno le idee e le esperienze per mettere a frutto queste indagini. Dobbiamo andare oltre il “sono andato al museo e stavo alla grande”, e coinvolgere medici e psicologi nella co-creazione di strumenti e connessioni. Ciò che dobbiamo capire è: qual è l’origine di quel benessere? È il rallentare? È la connessione, il parlare con chi è con noi al museo? Le regole degli stessi musei, però, spesso impongono silenzio: vanno ancora bene? O ancora, è la mindfulness, o l’architettura, il trovarsi in luoghi grandi e stupendi? Sono molte le opzioni, necessitiamo di studio e creatività per andare incontro ai bisogni umani. Con il progetto di Humanities and Human Flourishing – di cui potete andare a vedere i lavori a questo link – abbiamo realizzato un’esperienza virtuale di arte ad accesso libero, dove si potevano creare gallerie con immagini a piacimento: qui noi studiamo quanto tempo le persone passano davanti a cosa, e altri dati.

In quest’ottica, può essere la risposta all’ondata di isolamento e depressione che vediamo tra i giovani?

Una dei fattori di stress e malessere che il museo potrebbe lenire è proprio questo. Poi dipende. Io ho un figlio di undici anni molto introverso, ama stare su internet e giocare ai videogiochi. Dovrei essere preoccupato? Se è online e gioca con i suoi amici, c’è un elemento sociale: l’importante è che sia sempre un equilibrio, come in qualunque mezzo di comunicazione.

Abbiamo visto che i musei si sono rivelati più necessari che mai dopo la pandemia: tra guerre e cambiamento climatico, un ruolo del museo potrebbe essere quello di lenire i traumi?

Assolutamente sì. Come giustamente detto da Nathalie Bondil, direttrice del dipartimento museale dell’Institut du Monde Arabe: “Sono convinta che nel XXI secolo la cultura farà per la salute ciò che lo sport ha fatto nel XX: le esperienze culturali saranno percepite come un contributo fondamentale per il nostro benessere tanto quanto lo sport migliora la nostra salute fisica”. Se ci pensiamo, l’esercizio fisico non veniva visto benissimo prima del XX secolo! Quando è cambiato tutto? Con la scienza. Quando si cambia prospettiva e si comprendono le condizioni in cui il miglioramento accade, la scienza può portarci molto lontano. Ora non resta che capire quando l’arte e la cultura ci fanno bene, e quando ci fanno male: vedendo un prodotto di una vecchia mentalità, per esempio, potrebbe dare un sentimento di oppressione ancora maggiore.

Andrebbe quindi insegnato a scuola sin da piccoli? O standardizzando questa esperienza si perderebbe parte della gioia e della naturalezza?

Non sappiamo ancora come funzioni questo equilibrio. Ciò che emerge chiaramente è l’importanza del fattore di volontarietà, in pratica il non sentirsi obbligati a fare qualcosa. Tutto il bene che la musica può farci svanisce di colpo quando i nostri vicini la tengono molto alta nel cuore della notte. Deve esserci un fattore di autonomia. Certo, poi le persone e i bambini ce li devi portare al museo, ma una volta lì possiamo fare molto più che imboccarli di nozioni forzate. Ci deve essere del divertimento e del coinvolgimento, che non significa un istupidimento della qualità dell’esperienza. Ciò a cui bisogna puntare è, come individuato da Mihaly Csikszentmihalyi, il “flow”. È un’esperienza autotelica, che ha senso in sé stessa, come gli scacchi o l’arrampicata, o anche lo studio amatoriale di uno strumento musicale: facendo ciò che ci stimola e incontra il nostro bisogno mentale senza annoiarci né darci ansia, entriamo in una “zone”. È lì che impari.

C’è il rischio che vedere il museo come fisicamente benefico porti a una speculazione che ne snaturi l’indole?

Come tutti gli estremi, il rischio esiste. Siamo tra due poli: da una parte, l’arte per l’arte, dall’altra, l’arte per i soldi. La prima, altrettanto dannosa, non riesce a cogliere i benefici fisiologici e sociali che discendono dall’arte e sono importantissimi: oltre al flow, ci sono il senso di stupore e adorazione che proviamo davanti alla bellezza, una maggiore comprensione di noi e degli altri, un coinvolgimento senza preoccupazioni. La seconda è una riduzione al numero, troppo robotica e strumentale per servire davvero l’umanità e comprendere perché abbiamo l’arte in primo luogo. Ci dev’essere una via di mezzo tra l’astrazione e la distopia, e c’è eccome: abbiamo solo bisogno di studiare i connotati di questa via di mezzo, riportando tutti i dati all’esperienza umana, metterla al suo servizio. È difficilissimo quantificare una cosa del genere – non ha senso chiedere a qualcuno “quanto meno si sente depresso” quando esce dal museo –  ma meglio di quello che abbiamo ora si può sicuramente fare: più facciamo ricerca, più il museo può essere cura. Per non parlare del fatto che creeremmo dei “nuovi numeri” per capire i musei e il loro ruolo, che vadano oltre i biglietti staccati e i soldi pubblici risparmiati in sanità: i numeri sono uno strumento, sta a noi cercare nel posto giusto.

– Giulia Giaume

www.bresciamusei.com/
www.museumsassociation.org/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Giulia Giaume

Giulia Giaume

Amante della cultura in ogni sua forma, è divoratrice di libri, spettacoli, mostre e balletti. Laureata in Lettere Moderne, con una tesi sul Furioso, e in Scienze Storiche, indirizzo di Storia Contemporanea, ha frequentato l'VIII edizione del master di giornalismo…

Scopri di più