Come funziona la formazione in ambito culturale

Ci sono una serie di competenze “nascoste” che vanno acquisite per lavorare in campo culturale e rientrano tutte nella pratica dell’h-education – la dimensione meno visibile, ma fondamentale, dell’insegnamento

Le organizzazioni culturali, nel loro percorso (in molti casi una sfida) verso l’essere e il diventare impresa, hanno necessità di fare proprie alcune consapevolezze. In interventi precedenti abbiamo attinto dai processi e dalle procedure tipiche del mondo aziendale quali modalità e approcci trasformativi anche in ambito culturale. Con il presente contributo vogliamo, invece, riferirci ad assunzioni e pratiche molto “umane”, che il mondo aziendale e for profit ha in qualche misura preso in prestito da un umanesimo fatto di soft skills, sostenibilità e bias cognitivi (possibili distorsioni che le persone attuano nelle valutazioni della realtà).

LA FORMAZIONE IN AMBITO CULTURALE

Intendiamo, in particolare, per la governance e la gestione dell’organizzazione culturale il develay (termine utilizzato in ambito didattico) come trasposizione di apprendimento e la h-education (termine coniato per l’occasione) come dimensione nascosta (hidden) della pratica di trasferimento di saperi e competenze. Partiamo dall’assunto che uno degli obiettivi da raggiungere è la formazione di figure capaci di guidare e gestire (nella più ampia – e latina – accezione del verbo to manage – da manus: opera; gestione di risorse economiche, patrimoniali, finanziarie ma anche umane, di conoscenza, relazionali ecc.) le imprese culturali.
Per questo in un modello organizzativo efficace, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa – quante volte i più non si sono posti la questione, e la sfida, perché “piccoli” o con pochi operatori, senza comprendere fino in fondo che non è tanto una questione di struttura e di numeri, quanto di forma mentis –, è opportuno prendere consapevolezza che le persone che stabilmente lavorano in una determinata organizzazione (amministratori, dipendenti, soci lavoratori, ma anche collaboratori e volontari stabili) sono, per la maggior parte dei casi, educatori e operatori al contempo (develay). Come tali si muovono in un contesto che non è mai uguale poiché continuamente l’ambiente interno (la persona) ed esterno si modificano generando una dimensione nascosta di trasferimento di conoscenze e pratiche (h-education).
I due schemi chiaramente vanno calibrati sulla struttura dell’impresa culturale che, in questo caso sì, diventa una variabile condizionante poiché mentre in realtà più piccole possiamo avere come immagine di riferimento i vasi comunicanti di Archimede con una forte fluidità nel mansionario (secondo un approccio one to all), organizzazioni più grandi con organigrammi più gerarchici e definiti presentano un modello in cui si tende al mentoring (one to one) o a una trasposizione one to few. Conseguentemente avviene per l’h-education che, come un fiume carsico, può o non può diffondersi nell’organizzazione, apparendo e scomparendo in funzione dei caratteri dominanti, per dirla alla Mendel.

LE CARATTERISTICHE DELL’H-EDUCATION

La trasposizione dell’apprendimento consiste, per un soggetto che in una determinata situazione funge da educatore/insegnante, nel trasmettere la propria conoscenza attingendo dalla propria fonte di saperi, estraendoli dalla circostanza in cui sono stati assimilati per riportarli in un altro contesto. È quel processo che trasforma il sapere esperto in sapere trasposto e assimilato, influenzato da molte variabili, tra cui il modello organizzativo, le pratiche sociali di riferimento, la corporate identity e il grado di coinvolgimento delle persone in riferimento alla missione, per citarne alcune.
L’h-education è la dimensione nascosta della pratica dell’insegnamento, che dipende in parte dal “modo di fare” proprio di un individuo, in parte dalle esperienze e dal contesto in cui si è operato. Questo trasferimento, infatti, non ha le caratteristiche tipiche di uno schema matematico, basato sulla sola comunicazione didattica evidente (CVD: come volevasi dimostrare), ma consiste in una mixité di saperi pratici insiti nei gesti (che generano empatia), negli sguardi (lo sguardo è decisione), nella routine (che alimenta sicurezza), nei valori (che indicano coscienza, consapevolezza di sé e chiarezza), nelle azioni (il fare che accompagna il pensiero), nei silenzi (sempre eloquenti), nelle memorie (che irrobustiscono, a volte costruiscono, la ritenzione prospettica: trattengo non soltanto come ricordo funzionale al problem solving quanto anche come mezzo di design thinking a medio/lungo termine). Pur essendo queste tutte dimensioni implicite e nascoste, possiedono la concretezza e il pragmatismo da cui dipende parte del successo di un’organizzazione culturale.

Irene Sanesi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #68

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Irene Sanesi

Irene Sanesi

Dottore commercialista e revisore legale. Socio fondatore e partner di BBS-pro Ballerini Sanesi professionisti associati e di BBS-Lombard con sedi a Prato e Milano. Opera in particolare nell’ambito dell’economia gestione e fiscalità del Terzo Settore con particolare riferimento alla cultura,…

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