L’idea di un liceo pubblico-privato. Piccola azione di politica industriale
Il sogno dell’autonomia economica per i giovani sta diventando sempre più irraggiungibile. Ma il cambiamento deve partire dall'istruzione
Senza ombra di dubbio, tra tutte le grandi problematiche che gremiscono il catalogo delle criticità del nostro Paese, il tema del disallineamento tra percorsi formativi e domanda di lavoro merita una riflessione particolare. Basta guardare i concorsi pubblici o le inserzioni private, e ancor più basta contare quanti laureati rispondono per concorrere a mansioni per le quali è richiesto il diploma per comprendere che tra mondo della formazione in Italia e mondo del lavoro c’è un abisso che la sola parola “mismatch” non riesce a trasferire con precisione.
Le scuole non devono formare persone, non lavoratori
Ora, è importante stabilire sin dal principio che l’educazione e la formazione non hanno come unico scopo quello di preparare al mondo del lavoro. Concorrono a formare le persone, a rendere i cittadini capaci di interpretare il mondo che vivono, ad apprezzare la vita, la bellezza che si cela dietro un’opera d’arte o dietro un meccanismo industriale. Le “scuole”, come si chiamano normalmente in Italia, devono creare donne e uomini di valore, che sappiano sviluppare un pensiero critico, e che sappiano applicare questo pensiero critico nella propria vita, dal lavoro agli affetti.
Dopo questa doverosa introduzione al sapor di politically correct, fermo restando che al netto della retorica le scuole davvero dovrebbero svolgere questo compito, è altrettanto doveroso constatare che, allo stato attuale, non mi pare che il sistema scolastico italiano stia eccellendo in questi intenti. Non dovendo un articolo risolvere tutti i problemi del Paese, in questa riflessione è possibile però cercare un confronto con chi leggerà per ipotizzare delle azioni che possano quantomeno ridurre quel divario che, al netto del buonismo, si trasforma poi in giovani disoccupati, oppure occupati e frustrati, perché dopo aver pagato anni di studio e università per diventare curatori, architetti, biologi, professori universitari e affini, si trovano in molti casi a fare lavori d’ufficio senza alcuno stimolo intellettuale. Quel “mismatch”, quindi, non è soltanto una dimensione “economica”, è l’assassinio di molti sogni.
La verità è che in un contesto come quello italiano, anche solo una classe di futuri occupati a 19 anni è una piccola rivoluzione
Il possibile dialogo tra liceo e impresa
Per ridurre questo divario, potrebbe forse essere più utile iniziare a coinvolgere in modo più attivo le imprese e le industrie, già nel processo di formazione delle giovani generazioni. Allo stato attuale, a dire il vero, esiste un crescente interesse in questo senso, che tuttavia si concentra nel rapporto tra Industria e Università, con la creazione di Master o di assegni di ricerca.
Si può però agire anche prima. Ipotizzando, ad esempio, che un “pool” di grandi imprese di uno specifico settore partecipino attivamente alla creazione di “licei”, in associazione con il settore pubblico; garantendo così che il processo di istruzione rivolta agli studenti mantenga il controllo pubblico, e associando ad essa degli insegnamenti di “indirizzo”, condotti da referenti delle aziende, al fine di preparare gli studenti alle potenziali esigenze lavorative delle imprese.
Si ipotizzi, in soldoni, che dieci aziende di costruzione, in Italia, abbiano bisogno di personale per posizioni da diplomati. E che queste grandi aziende firmino un accordo con uno o più istituti scolastici per poter fornire così, oltre alle dimensioni di cultura che tali istituti scolastici possono garantire, anche degli insegnamenti e delle azioni pratiche volte a soddisfare la propria domanda di lavoro.
Chiaramente senza alcuna garanzia di assunzione, e chiaramente con test attitudinali di accesso prima a quel determinato liceo. Non è detto che “funzioni”, ma nella peggiore delle ipotesi, cosa potrebbe mai accadere? Che 150 – 300 studenti che hanno scelto, di quel liceo, quello specifico indirizzo, possano essere stati formati, oltre che nelle materie tradizionali, anche in materie che rispondono a bisogni attesi da parte delle aziende?
Pro e contro di un liceo tra pubblico e impresa
Ovvio, questo tipo di ragionamento apre a tantissime riflessioni e obiezioni valide. Ma come detto in anticipo, l’idea di questa riflessione è quella di avviare un confronto, non identificare una soluzione.
Una delle obiezioni è che, essendo poche le aziende che possono davvero permettersi un’azione di questo tipo, un’operazione simile potrebbe avvenire soltanto in poche città. Corretto, e questo sicuramente creerebbe delle differenze tra città e città, o costringerebbe, per chi può, il trasferimento dell’intero nucleo familiare o del solo ragazzo in una città diversa. Si tratterebbe soltanto di anticipare di due anni il destino di tutti coloro che adesso frequentano le Università.
Un’altra delle obiezioni è che quest’azione potrebbe indurre le persone a non frequentare l’Università, andando contro a quel popolo di colti e laureati che l’Unione Europea sogna. Verissimo, ma in primo luogo si tratterebbe di un’evidenza del tutto irrilevante sotto il profilo statistico. In secondo luogo si tratterebbe di un problema facilmente superabile, introducendo, ad esempio, nell’accordo di partnership tra pubblico e privato, che gli eventuali assunti a seguito del liceo debbano ricevere, all’interno delle condizioni contrattuali, degli incentivi a proseguire (al di fuori del proprio orario di lavoro), gli studi universitari che ritengono più consoni alle proprie volontà. In questo modo avremmo da un lato persone che guadagnano soldini già a 19 anni, e dall’altro potrebbero studiare per migliorare la propria posizione all’interno o all’esterno dell’Azienda, o al contrario per il bisogno di migliorare la propria conoscenza su certe materie, restituendo finalmente all’Università anche quella funzione di “amore per il sapere” che da tempo pare ormai del tutto sparita dalle brochure dell’Istruzione Superiore.
Un liceo, completo, con un indirizzo specifico gestito dalle aziende. Che arricchisca quegli indirizzi specifici che oggi esistono, ma che forniscono informazioni che poi non risultano così utili quanto si proclama siano. Non dovrebbe essere necessario. Non dovrebbe essere nemmeno auspicabile. Ma la verità è che in un contesto come quello italiano, anche solo una classe di futuri occupati a 19 anni è una piccola rivoluzione.
Piuttosto che stimolare i ragazzi a creare sogni senza fornire loro nulla che li aiuti a concretizzarli, creiamo delle condizioni che consentano loro di coniugare i propri sogni nella libertà dell’autonomia economica. Ed evitare che l’autonomia economica (che è uno strumento), diventi il sogno sempre più difficile da raggiungere.
Stefano Monti
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