Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali: il punto sugli ultimi 4 anni
Dopo un quadriennio la Fondazione istituita dal Ministero della Cultura cambia la sua governance. Il presidente Vincenzo Trione e la direttrice Alessandra Vittorini terminano il loro mandato. Un’ottima occasione per una ricognizione ampia su questa istituzione
La prima idea di costituire una Scuola dei beni e delle attività culturali ha ormai praticamente 10 anni ma – forse perché sono più note le singole iniziative verticali che l’istituzione nel suo complesso – non è ancora immediato raccontare in maniera semplice e comprensibile a tutti cosa faccia l’ente. Chiediamo al presidente Vincenzo Trione e alla direttrice Alessandra Vittorini di darci una mano e cogliamo l’occasione per far raccontare loro i risultati raggiunti nell’ambito del loro mandato quadriennale che va a concludersi.
Proviamo a inquadrare meglio queste attività non troppo note al grande pubblico?
Vincenzo Trione: Ha ragione, ma è nella natura della sua complessità. Formalmente la Scuola nasce nel 2016 con la fase di start up che ha conosciuto i fisiologici tempi di avviamento graduale. Su queste basi si sono costruite le condizioni per la crescita degli ultimi quattro anni: una Scuola per tutti gli operatori del settore, le migliaia di professionisti del patrimonio culturale, nel segmento della formazione continua, in un dialogo costante con la ricerca e con la sperimentazione di modelli di gestione innovativi. Il tutto in una dimensione internazionale di grande apertura e confronto. Forse, siamo conosciuti soprattutto per i nostri progetti. Ma tra i professionisti di settore siamo un punto di riferimento.
Ci sono progetti comparabili?
V.T.: No. Non esiste in Italia nulla di analogo e anche nello scenario internazionale abbiamo conquistato una posizione di rilievo. La rete di relazioni istituzionali, a livello nazionale e internazionale, ci percepisce come un unicum. Sulla comunicazione abbiamo un grande lavoro da fare. Le faccio un esempio: ancora oggi le persone non credono che la nostra offerta formativa sia libera, accessibile a tutti e gratuita.
L’attuale governance ha iniziato il proprio quadriennio in un periodo davvero particolare. Esiste un prima e un dopo riguardo la pandemia anche in attività come le vostre. Cosa è cambiato in maniera temporanea nel corso del 2020-21 e cosa invece è rimasto sino ad oggi?
Alessandra Vittorini: Nel settembre 2020 la Scuola usciva da un periodo complesso. Non solo per la pandemia. Dal 2018 erano partite le prime attività formative (Scuola del Patrimonio e International School of Cultural Heritage) e di ricerca: esperienze importanti da cui è nato il percorso per costruire il senso, l’identità e il posizionamento di una nuova istituzione chiamata a dare un contributo importante nel sistema del patrimonio culturale. Il lockdown ha imposto una battuta d’arresto ma è stato anche qui, come ovunque, l’occasione per potenziare la formazione a distanza. Con lungimiranza, infatti, la nostra Scuola stava già sperimentando la sua piattaforma di e-learning, intorno alla quale si è costruita nel tempo una comunità forte e sono nati progetti e programmi innovativi.
Cosa è rimasto da allora?
A.V.: Sicuramente il modello formativo, che si è rivelato vincente: basato su una prospettiva di confronto, integrazione e ibridazione tra discipline e tra operatori, in un circuito virtuoso con la ricerca, l’innovazione e l’internazionalizzazione. Un formato che si è positivamente e concretamente evoluto nel tempo con nuovi approcci e nuove relazioni, in un rapporto privilegiato con il Ministero della Cultura, con i musei, i parchi archeologici e tutti i luoghi della cultura italiani, pubblici e privati, naturali destinatari e compagni di strada dei nostri programmi.
Altri cambiamenti rilevanti?
A.V.: Nasce in quegli anni anche il disegno di una missione più ampia per la nostra Scuola, incaricata dal 2020 di curare con la SNA-Scuola Nazionale dell’Amministrazione, il primo Corso concorso dedicato ai dirigenti tecnici del Ministero della Cultura. Un progetto strategico con cui abbiamo selezionato e formato 63 allievi dirigenti – destinati a gestire istituti ministeriali di tutela e valorizzazione: archeologia, belle arti e paesaggio; musei e reti museali; archivi e biblioteche – che sono oggi in gran parte insediati e in servizio effettivo. Un modello innovativo che ha coinvolto una quota pari a circa il 50% del totale dei dirigenti di settore.
Durante i 4 anni del mandato la Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali ha avuto un’evoluzione significativa, il personale è aumentato di molto e l’organigramma si è strutturato. Come siete organizzati ora e in quali dipartimenti è suddiviso il personale?
A.V.: Dopo un avvio graduale, negli ultimi quattro anni abbiamo costruito e strutturato un modello organizzativo con un team importante. In termini assoluti siamo passati da 19 dipendenti del 2020 a 75 unità di oggi, di cui 33 unità dedicate ai progetti PNRR.
Ma quello che conta è la struttura complessiva: attualmente siamo articolati in cinque aree organizzative: Formazione, Ricerca, Internazionalizzazione, Progetti d’innovazione e complessi, Digital Education and Training, a cui si aggiungono le due aree trasversali, la Comunicazione e l’Amministrazione.
Come si costruisce tutto questo?
A.V.: I nostri reclutamenti sono pubblici, rispettano regole severe e sono svolti in piena trasparenza, con prove scritte e colloqui. Oggi abbiamo una squadra articolata e guidata da figure altamente competenti, con una prevalenza di giovani professionisti preparati e motivati che disegnerà il futuro della Scuola: esperti di gestione del patrimonio culturale, progettisti della formazione, progettisti europei, ricercatori, professionisti del digital learning, con un’età media di 35 anni. Un team caratterizzato da un’alta qualità: i 73 progetti che oggi possiamo raccontare non sono solo tanti e vari, sono anche di grande livello. E il sistema di relazioni che abbiamo costruito con oltre 300 istituzioni e organizzazioni lo testimonia.
Non avere una sede fisica ha rappresentato un problema?
A.V.: La Scuola non ha una sede propria ed è ospitata dal 2018 presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Ma direi che per la specifica natura dei suoi modelli formativi la mancanza di una sede specifica non sempre costituisce un problema, ma può anzi offrire lo spunto per creare valore aggiunto. Da una parte, infatti, le nostre attività di e-learning possono contare su una piattaforma on line che è ormai una grande community virtuale.
Per le attività in presenza la maggior parte dei programmi si svolge stabilmente con e nei luoghi della cultura, fattore che conferisce valore alla formazione e all’esperienza concreta, basata su un rapporto diretto e sul campo, con gli operatori. Facciamo qualche esempio: per il programma Toolkit for museums, rivolto ai professionisti museali, le attività si sono svolte presso i tanti musei partner di progetto, così come è accaduto per Oltre il giardino, corsi per i curatori di parchi e giardini storici, svolti in alcuni importanti parchi e giardini italiani. Le attività di scambio e formazione internazionale hanno portato i professionisti a vivere esperienze di fieldwork in parchi archeologici, musei e istituti italiani di ricerca o, al contrario, hanno offerto esperienze formative in loco, con incontri, workshop e moduli formativi in Grecia, Francia, America Latina o Africa. Certo, avere una sede definitiva che sia un punto di riferimento stabile delle attività sarà certamente una necessità per il consolidamento futuro della Scuola, il suo posizionamento e la sua riconoscibilità.
Erogare formazione di qualità è costoso. I finanziamenti alla scuola sono stati sempre costanti o in crescita e sono adeguati alle necessità? Che tipo di bilancio presenta una istituzione come la FSBAC?
V.T.: L’alta formazione è costosa ed è costosa la qualità. E, tuttavia, ritengo che quello dei costi sia un falso problema: la vera questione è quali benefici mettiamo in relazione con i costi.
Benefici che vanno misurati…
V.T.: È chiaro che le metriche di valutazione standard fatichino a misurare gli effetti di una formazione di alto livello perché si dispiegano in un tempo medio lungo e andrebbero osservati con pazienza e costanza sia nella dimensione dell’individuo sia nella dimensione dell’organizzazione in cui è inserito. Noi ci siamo interrogati sulla valutazione delle nostre attività.
Cosa vi siete inventati in tal senso?
V.T.: Abbiamo scelto di dotarci di un nucleo di valutazione terzo, composto da esperti esterni, che hanno messo a punto un sistema sperimentale di misurazione e monitoraggio dell’efficacia delle attività formative e di ricerca: ne emerge un quadro innovativo che, in futuro, potrà essere condiviso ed essere esso stesso oggetto di un interessante confronto con tutti i portatori di interesse. A questo si affianca un sistema strutturato di rilevazione degli effetti delle attività formative, che abbiamo sperimentato con il Corso-concorso dei dirigenti del Ministero della cultura e con Toolkit for Museum. Pubblicheremo a breve gli esiti di questa attività, rendicontando anche la metodologia. Dal punto di vista del bilancio è bene sottolineare che la Scuola, ad oggi, opera nella sola dimensione istituzionale e non gestisce alcuna attività commerciale. I finanziamenti del Ministero della Cultura sono stati costanti e ci sono le condizioni per diversificare le fonti di finanziamento, sia sul piano nazionale che sul piano internazionale. Oltre il 70% dei nostri fondi sono impiegati nelle attività istituzionali: parliamo di oltre 4 milioni di euro su un totale di 6 milioni complessivi di bilancio. Ribadisco: tutte le nostre attività sono liberamente accessibili e gratuite.
Come mai venne scelto il veicolo della ‘fondazione’ piuttosto che altri modelli? Si è rilevato un modello efficace per la gestione di un polo formativo?
V.T.: Il modello è quello di una Fondazione di partecipazione, in teoria dunque è un modello aperto all’ingresso di altri soci.
Già, ma il socio è rimasto uno…
V.T.: Ad oggi, l’unico socio è quello fondatore, e dunque il Ministero della Cultura. Sul punto, in passato, ci sono state visioni diverse, anche sul piano politico: ma l’idea di aver costituito un soggetto autonomo e di diritto privato si è rivelata vincente. Permangono – come è corretto che sia – tutti i vincoli e i sistemi di controlli previsti per la pubblica amministrazione, ma in una dimensione operativa che dà grande efficienza sul piano gestionale e capacità realizzative tangibile. Grazie a questo modello abbiamo potuto raggiungere in breve tempo i risultati che raccontiamo.
Per i vostri corsi e le vostre iniziative avete deciso di non avere dei docenti fissi interni. Come mai questa scelta?
A.V.: Non è una scelta insolita, né casuale. In linea con altre istituzioni simili a livello internazionale, abbiamo scelto di non strutturare un corpo docente interno ma di avvalerci della variegata tipologia di esperti richiesta dai diversi percorsi di formazione. In relazione ai programmi, ai destinatari, alle tematiche e alle tipologie di corsi sono infatti necessarie specifiche expertise, e ciò ci consente di individuare di volta in volta gli esperti migliori, quelli altamente specializzati e con i profili professionali più idonei: docenti universitari, formatori, esperti di settore, amministratori o portatori di esperienze specifiche a livello nazionale o internazionale. Inoltre, il Consiglio Scientifico della Fondazione, che affianca e accompagna le scelte metodologiche e la costruzione dei programmi, è composto da accademici e grandi esperti di rilievo nazionale e internazionale, che non solo contribuiscono attivamente alle riflessioni e agli indirizzi del nostro lavoro ma danno alla Scuola una credibilità importante.
È il vantaggio di una dimensione aperta, che non si vincola a sistemi rigidi ma coglie la libertà di costruire la migliore offerta formativa sull’esigenza specifica.
In questi anni avete erogato centinaia di migliaia di ore formative e avete toccato oltre 65 mila persone con le vostre attività. Quali ritenete siano oggi nella seconda metà del 2024 i bisogni principali in termini di mancanze, di ricerca di personale qualificato e di formazione del settore dei beni culturali?
A.V.: La nostra comunità, ampia e profilata, comprende i tanti professionisti, operatori, esperti e ricercatori che hanno preso parte nel tempo e nelle diverse modalità alle nostre attività. Circa 40.000 utenti frequentano la nostra piattaforma ed oltre 65.000 hanno seguito i corsi online o in presenza, hanno consultato le pubblicazioni, hanno partecipato agli eventi nazionali o internazionali. La nostra è una rete di relazioni vivaci e dinamiche che include istituzioni culturali, organizzazioni, amministrazioni, università, enti di ricerca, associazioni professionali e il mondo del non profit. In questi anni, anche grazie a specifiche indagini, abbiamo messo a fuoco alcuni dei principali fabbisogni del settore. È vero che il nostro Paese ha una consolidata esperienza nella formazione per il patrimonio culturale, con università, master, dottorati e scuole di specializzazione che coprono ampiamente tutti ambiti disciplinari e specialistici. Ma ha anche una necessità stringente che riguarda la formazione di competenze trasversali e soft skills, quelle necessarie per gestire le relazioni e i finanziamenti, la collaborazione istituzionale e il rapporto pubblico-privato, il fundraising e la dimensione della progettazione europea, i nuovi ambiti della comunicazione, anche digitale, della relazione con il pubblico e le comunità, le nuove frontiere dell’esperienza culturale e il suo contributo al benessere sociale, le questioni urgenti della sostenibilità. Non servono necessariamente nuovi professionisti, ma sicuramente nuove competenze. Occorre saper governare gli aspetti di cura e gestione misurandosi anche con le crescenti attese e le nuove sfide del patrimonio culturale. A partire dalla sua capacità di alimentare, nelle comunità e nei cittadini, nuovi valori di appartenenza, cittadinanza, coesione, inclusione, condivisione e identità, rendendoli protagonisti dei processi di sviluppo sociale e economico.
Tra i tanti corsi erogati e le numerose iniziative – che spaziano dalla formazione interna del personale del Ministero della Cultura fino alle giornate di studi sull’arte nello spazio pubblico – quale ritenete sia l’attività che ha avuto la maggiore efficacia misurabile in assoluto?
V.T.: Se devo citare un solo progetto, penso che la nostra attività on line rappresenti una sfida importante. Quando arrivò il lockdown, nel marzo del 2020, abbiamo fatto una grande corsa per pubblicare la piattaforma di formazione a distanza, sulla quale stavamo già lavorando. Sin dai quei mesi abbiamo capito quanto fosse necessario dare a tutti i lavoratori della cultura uno spazio di formazione on line, gratuito e pieno di contenuti. A oggi, abbiamo oltre 500 schede corso in catalogo e oltre 40.000 utenti iscritti. Siamo l’unico e più importante hub di e-learning sui temi della cultura: ne siamo fieri. Non le nascondo che leggere i commenti che i nostri utenti lasciano sui nostri canali social rende ancora più orgogliosi del lavoro che stiamo facendo.
A proposito di efficacia misurabile, la FSBAC ha maneggiato e maneggia una enormità di dati succulenti per capire il comparto dei beni culturali. Riuscite a estrarre valore in termini di analisi da questi numeri? E se sì, cosa emerge?
V.T.: Sulla potenza dei dati c’è molto da dire. Intanto, vorrei segnalare che, anche grazie alla collaborazione con la nostra Scuola, dopo 10 anni di assenza, il Ministero della Cultura ha di nuovo pubblicato “Minicifre della Cultura”, una pubblicazione annuale con tutte le statistiche della cultura. Quanto alla domanda, la risposta è: “si”. I numeri ci hanno aiutato a capire che cosa sta avvenendo nella platea dei professionisti della cultura. Se ci basiamo sui dati presenti sulla nostra piattaforma e-learning, vediamo che, dal 2021 a oggi, l’età media degli operatori della cultura è scesa da 51 a 46 anni. E che stanno ulteriormente crescendo i livelli di scolarizzazione (gli operatori con titolo di studio accademico sono passati dal 76% all’81%). Poi, c’è un dato sul quale dobbiamo riflettere…
Quale è?
V.T.: Ogni anno escono dalle università di humanities circa 80 mila studenti, quando il mercato del lavoro riesce a “drenarne” circa 30 mila. Su questo gap bisogna lavorare, anche per questo la Scuola, proprio nel 2024, ha avviato un percorso di confronto con i dottorati universitari del settore del patrimonio culturale, con il supporto del Ministero dell’Università e della Ricerca, che dovrà portare a una sempre più forte collaborazione.
Un pilastro delle vostre attività, al fianco della formazione, è stata l’editoria. Quali sono stati gli output più significativi?
A.V.: All’attività editoriale e agli eventi di divulgazione è affidata la diffusione dei risultati delle nostre attività di ricerca, formazione e studio. Dal 2021 – anno in cui abbiamo prodotto la prima pubblicazione e ci siamo costituiti come editori con licenza Creative Commons – mettiamo a disposizione report, pubblicazioni e approfondimenti tematici. Autonomamente o con il Ministero della Cultura e altri partner, abbiamo prodotto 20 volumi e 64 rapporti di studio, in gran parte accessibili on line. Segnalo, tra gli altri il recente volume sulla ricerca “Partecipazione alla gestione del patrimonio culturale” o “Arte e spazio pubblico”, frutto di un importante lavoro che, con oltre 100 autori, traccia un quadro dell’arte contemporanea in Italia nei luoghi pubblici. Ricordo nuovamente il prezioso contributo offerto dai volumi dedicati ai dati statistici sulla cultura in Italia: “Come si misura la cultura?” e “Minicifre della cultura”. O, infine, il set di pubblicazioni che testimoniano l’esperienza di Cantiere Città, innovativo progetto di capacity building che da tre edizioni affianca le dieci città finaliste a “Capitale italiane della cultura”.
Un altro pilastro particolarmente interessante da raccontare è invece l’internazionalizzazione? Con quale logica una scuola promossa dal Ministero della Cultura italiano per erogare formazione intesse relazioni al di fuori dell’Italia?
V.T.: La nostra Fondazione nasce con un forte spirito “internazionale”: nel board. uno dei membri è nominato dal Ministero degli Esteri. Inoltre, lo statuto ci chiama a un compito importante: realizzare l’International School of Cultural Heritage (finora si sono già svolte 3 edizioni). Il nostro lavoro a livello internazionale ha un fine fondamentale: sostenere le istituzioni italiane della cultura, i grandi parchi archeologici, i nostri musei, nella attivazione di relazioni con il resto del mondo, perché da questo possano poi esserci dei seguiti come nuovi progetti, scambi, iniziative congiunte. E lo facciamo con uno strumento potente come quello della formazione: progettiamo corsi ai quali partecipano professionisti italiani e stranieri. Così raggiungiamo almeno tre obiettivi: la formazione di nuove competenze, la conoscenza reciproca, la realizzazione di nuovi progetti. In questi anni siamo stati chiamati a collaborare su progetti internazionali dai principali player di settore: ICCROM, IILA – Organizzazione Internazionale Italo Latino Americana, Commissione Europea.
Avete anche in gestione alcuni progetti che fanno capo al PNRR. Di che si tratta?
A.V.: In linea con le strategie europee, la formazione costituisce uno dei pilastri del programma Next Generation EU e dunque anche del PNRR Cultura 4.0 del Ministero della Cultura: l’investimento che lavora sulla crescita delle competenze delle persone e delle organizzazioni e che quindi, più di altri, guarda al futuro. Questa importante sfida ci ha trovato pronti nel dare risposta alle esigenze di aggiornamento e formazione connesse al Piano nazionale della digitalizzazione del patrimonio culturale. Grazie all’esperienza maturata nella progettazione formativa e agli strumenti innovativi di e-learning costruiti nel tempo, nel 2022 la Fondazione è stata individuata dal MiC come soggetto attuatore della misura dedicata alla formazione delle competenze digitali, con un budget di 20 milioni di euro e un impegnativo target europeo: 30.000 formazioni fruite e certificate entro il 2025. Per questo è nato Dicolab. Cultura al digitale, il nostro sistema formativo dedicato ai professionisti, agli operatori e alle organizzazioni impegnati nelle sfide della trasformazione digitale del patrimonio culturale. Un modello di blended learning con un ricco catalogo di prodotti fruibile gratuitamente attraverso la nostra piattaforma, che si interseca con progetti e attività sul territorio a livello nazionale. Una formazione aperta, gratuita e certificata tramite open badge. E a soli nove mesi dall’avvio possiamo dire con soddisfazione di aver raggiunto quasi il 60% del target, dato incredibile se si paragona agli altri investimenti dell’intero PNRR nazionale.
Ma non finisce qui, perché altri investimenti del PNRR Cultura ci vedono impegnati in progetti importanti. Con Oltre il Giardino abbiamo ideato e realizzato il primo programma di formazione per la cura e gestione dei giardini storici. Corsi online aperti a tutti e corsi executive per addetti ai lavori, con laboratori in presenza in alcuni dei più importanti parchi e giardini storici italiani come la Reggia di Caserta e la Reggia di Venaria (TO), il Museo Nazionale di Villa Pisani (VE), Villa Durazzo (GE), il Giardino della Villa Medicea di Castello (FI) e Villa Buonaccorsi (MC), hanno offerto nuovi sguardi, nuove competenze e utili strumenti per gli operatori di settore in un ambito finora poco conosciuto e praticato.
Con altri specifici progetti formativi accompagniamo ulteriori investimenti MiC per il PNRR, da quello dedicato ai Borghi con il programma Laboratori di territorio a quello, in fase di avvio, dedicato all’accessibilità e all’inclusione nei luoghi della cultura.
Ci sono delle istituzioni simili alla FSBAC in Europa o all’estero in generale cui vi siete particolarmente ispirati o, al di là di tutto, cui vi sentite particolarmente affini e vicini? Quali sono le realtà autorevoli simili alla FSBAC al di fuori dell’Italia?
V.T.: Di certo il modello francese dell’INP – Institut National du Patrimoine è un punto di riferimento, anche se il contesto è molto diverso. L’INP è impegnato su due fronti molto interessanti: la formazione collegata al reclutamento dei conservatori sia a livello nazionale che a livello di enti territoriali da un lato, e una intensa attività di formazione continua dall’altro lato, anche di livello internazionale. Abbiamo con INP numerosi punti di contatto; non è un caso il recente progetto comune dedicato alla formazione per la gestione dei depositi museali che ha visto un gruppo di professionisti italiani e francesi al centro di un programma di scambi e di visite di studio di casi esemplari come i depositi del Louvre in Francia e i nostri depositi di emergenza al Santo Chiodo di Spoleto, piuttosto che i grandi depositi del Parco Archeologico del Colosseo. L’INP, inoltre, fa parte di un Accordo che abbiamo da poco siglato con altri importanti partner internazionali per la costituzione di un network dei Paesi G20 di Scuole operanti sui temi della gestione della cultura, a cui hanno aderito altri importanti istituti dagli USA e dalla Turchia.
Rispetto al modello francese della formazione collegata al reclutamento la nostra prima esperienza, fortemente innovativa per il contesto italiano, è stata quella del primo Corso-concorso di reclutamento della dirigenza tecnico specialistica del Ministero della Cultura condotto dalla Scuola con la SNA. E su questo fronte si potrebbe fare moltissimo attese le peculiarità professionali di coloro che si occupano di patrimonio culturale nella pubblica amministrazione italiana.
C’è un tema di reperimento del personale a livello nazionale in praticamente ogni comparto economico del paese: non si trovano più artigiani, addetti all’ospitalità negli alberghi, infermieri negli ospedali, cuochi e camerieri e neppure autisti degli autobus e delle metropolitane. Avete notato questo scenario anche nell’ambito dei beni culturali? Con quali riflessioni?
V.T.: Nel settore dei beni culturali, vedo piuttosto un problema contrario: abbiamo tanti (troppi) corsi di formazione universitari e post universitari, che ci raccontano mestieri dai titoli piuttosto vaghi. Master per manager della sostenibilità culturale, corsi per progettisti dell’impatto degli eventi culturali. Mentre il mercato del lavoro non esprime questi fabbisogni; e purtroppo resta ancorato alle tradizionali posizioni organizzative dell’archeologo, dello storico dell’arte, dell’architetto. Tutto ciò, porta alle note distorsioni di questo settore: laureati in discipline culturali, che si ritrovano a lavorare in posizioni diverse da quelle per le quali hanno studiato, sperando che questo li aiuti a intraprendere la carriera in questo settore, inserendoli nel contesto che desiderano, vittime di una sorta di macchina delle illusioni.
Quali sono gli ambiti di potenziale sviluppo della Fondazione che non si è fatto in tempo a sviluppare a pieno in questo quadriennio e sulle quali suggerite un particolare focus da parte della prossima governance?
V.T e A.V.: La Scuola ha avuto quattro anni di forte sviluppo, posizionandosi in modo solido in un ambito cruciale. Ci siamo sempre posti come un soggetto capace di osservazione e di ascolto, di progettualità e di innovazione, capace di dare risposte a un modo che cambia e cambierà ancora. Lo abbiamo fatto tenendo al centro i principi fondamentali della sostenibilità, della trasparenza e della rendicontazione sociale. Immaginiamo un futuro in cui, consolidando e valorizzando gli importanti risultati ottenuti, si possano riproporre i progetti di maggiore successo, sostenere le relazioni con i tanti partner nazionali e internazionali, continuare a progettare e a erogare prodotti formativi di qualità, puntare sui valori della ricerca e dell’innovazione. E valorizzare la credibilità e l’autorevolezza conquistate finora.
Occorrerebbe rafforzare il ruolo di soggetto qualificato per la formazione continua del personale del Ministero della Cultura e per la selezione e la formazione iniziale dei nuovi assunti. Disegnare modelli di collaborazione virtuosa con il mondo accademico, capaci di valorizzare il know how maturato dalla Scuola e il suo prezioso e riconosciuto ruolo formativo e di ricerca nel settore. Mettere a valore i programmi di successo e i possibili percorsi evolutivi per consolidare il ruolo della Scuola come soggetto principale della formazione qualificata e continua nel sistema, pubblico e privato, del patrimonio culturale e, insieme, come ponte tra università e mercato del lavoro, accompagnando l’inserimento di nuovi professionisti in un mondo sempre più articolato e mobile.
C’è dell’altro?
V.T e A.V.: Infine sarebbe importantissimo dare stabilità e futuro al grande sforzo fatto per costruire i programmi di ricerca e formazione nell’ambito del PNRR, per fare della Scuola un centro di riferimento riconosciuto nell’ambito del patrimonio culturale, un hub di sistema e di contenuti sempre più articolato, aperto e certificato. Sono, queste, solo alcune tra le sfide possibili per il futuro prossimo della Scuola.
Massimiliano Tonelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati