Negli Scavi di Pompei c’è anche una fattoria
Quella pompeiana è la prima area archeologica in Italia ad avere al proprio interno una “fattoria sociale”. Una comunità per tutti, che rientra in un più ampio ventaglio di iniziative concrete che il parco sta attuando da anni in termini di inclusione. Guardando prima di tutto al suo territorio
Oltre la cinta muraria che circonda il Parco Archeologico di Pompei c’è una grande area verde piena di terre a vocazione agricola e vecchi edifici demaniali che scolora direttamente nel territorio abitato circostante. Qui, un lato meno noto della Grande Pompei non solo esiste, ma fiorisce: quello delle attività sociali, che nell’ambito locale trova tutta la sua ragione d’essere e la sua vocazione. Sono ormai diversi anni che, in queste aree e non solo, il Parco Archeologico porta avanti progetti di inclusione e dialogo radicati nel patrimonio archeologico-culturale e in quello naturale, a lungo ignorato. Ne abbiamo parlato con la responsabile dell’ufficio accessibilità del Parco, l’architetta Arianna Spinosa.
Pompei tra accessibilità e inclusione. L’intervista all’architetta Arianna Spinosa
Che cosa fa l’ufficio accessibilità del Parco Archeologico di Pompei?
Le attività nascono come tecniche: erano rivolte soprattutto al superamento delle barriere architettoniche, per garantire l’accesso sicuro alle domus, e alla gestione dei percorsi di fruizione, oltre alla comunicazione e divulgazione a distanza offerte, per esempio, durante la pandemia. Siamo uno dei primi parchi italiani, dopo il Colosseo, ad avere percorsi facilitati che consentono ai visitatori con disabilità motorie di avere un’esperienza completa.
Come siete passati al supporto cognitivo e sensoriale?
Una volta superato lo step dell’accessibilità fisica alle aree, a cui va sommata la manutenzione e la riprogettazione delle aree verdi dentro e intorno al parco, ci siamo rivolti ai valori segnalati dalla Convenzione di Faro, che sottolinea l’importanza del pensare il lavoro museale in ottica comunitaria, specialmente locale. Pur continuando a pensare ai 4 milioni di visitatori che vengono apposta ogni anno, noi ci siamo quindi rivolti alla nostra comunità e al nostro territorio, che presenta anche delle problematiche sociali. In questo contesto abbiamo iniziato a lavorare con le scuole e le associazioni del terzo settore che si occupano di percorsi di riabilitazione per disabilità cognitive e intellettive.
Come avete iniziato a lavorare insieme?
Tutto nasce da una richiesta delle stesse associazioni: dopo la pandemia è emerso che una quota significativa della popolazione era tagliata fuori dalla possibilità di vivere un luogo, il museo e l’area archeologica, che di fatto porta benessere psicofisico. Il Parco si sviluppa all’aperto, in luoghi dove ragazze e ragazzi con disabilità, per esempio l’autismo, hanno meno disagio rispetto alle classi e agli spazi chiusi e sovraffollati dei musei.
Come coinvolgete le giovani e i giovani con disabilità?
Oltre a far visitare il patrimonio a un’utenza ampliata, puntiamo proprio a far “vivere” il parco, far entrare nel processo di conoscenza e conservazione: l’obiettivo è far capire che il Parco è un patrimonio di tutti. Portiamo avanti anche delle forme di lavoro, dalla manutenzione del verde alla raccolta della frutta: c’è tutta una serie di protocolli di collaborazione in rete con scuole e associazioni.
Il Parco Archeologico di Pompei, il PNRR e i progetti di coinvolgimento sociale
Con che fondi lavorate?
Con quelli che le associazioni ottengono dai finanziamenti regionali e dai bandi per l’inclusione sociale. Poi il Parco deve gestire giusto i costi della manutenzione delle aree e della messa in funzione, che però già rientrano nel bilancio. Sulla base delle prime esperienze siamo anche arrivati a far parte di alcuni progetti del PNRR pensati per l’accessibilità museale, presentando proposte e progetti per disabilità cognitivo-sensoriali: uno tra questi è particolarmente importante, si chiama “Un modello nuovo” e unisce la psicologia alla cura beni culturali.
Come funziona in pratica questo progetto, e quali benefici ha portato?
Abbiamo creato delle classi di persone con disabilità – i cui ragazzi venivano dalle associazioni e da un liceo di Pompei – e affiancato loro un team di psicologi, restauratori e architetti, dandogli la possibilità di approcciarsi alle operazioni preliminari della cura del patrimonio, ad esempio la spolveratura dei lacerti di intonaco, con una formazione teorica e pratica. Abbiamo osservato che in questo modo i giovani possono lavorare in gruppo e imparano a prendersi cura del patrimonio. È un progetto pilota, che si sposterà a Roma e altrove, ampliando la possibilità di accedere a un percorso terapeutico.
La fattoria sociale di Pompei e gli edifici demaniali del Parco
Come funziona la vostra fattoria sociale, la Parvula Domus?
La fattoria nasce da un’alleanza con l’associazione Tulipano, che può appoggiarsi a un edificio demaniale a ridosso della cinta muraria, dentro un bosco. Qui si fanno attività legate al verde: si sta dietro all’orto, al frutteto, ai giardini, e si fa apicoltura: è un progetto che crescerà con il tempo, e che rientra in un più ampio contesto di riqualificazione verde che andrà a promuovere una visione diversa del parco. In questo gli edifici demaniali sono molto importanti.
Cosa sono gli edifici demaniali di Pompei, e come li recuperate?
Il parco ha dei piccoli spazi – masserie o edifici rurali – che sorgono nelle aree non scavate sulle colline: parliamo di un quarto del parco. Noi li stiamo piano piano trasformando, dando loro una funzione sociale: la Casina dell’Aquila, per esempio, è diventata il punto di ristoro centrale dell’area archeologica. A fianco c’è la Casina Rustica, dove c’è un piccolo laboratorio di restauro, poi c’è la vecchia stazione della Circumvesuviana, alcune guardianie, vecchi uffici e gli edifici dell’area archeologica di fine Ottocento. Anche il Pompeii Children’s Museum nasce in uno spazio libero a ridosso della città scavata, vicino al Foro Boario, e si appoggia alla Casina Rosellino. Qui c’è un parco giochi a tema archeologia – con piccoli scavi e giochi simili a quelli dei bambini pompeiani – e si fanno attività che prevedono visite guidate focalizzate: siamo i primi, come Parco, a occuparci così attivamente delle famiglie.
Si può dire che il Parco abbia fatto dell’accessibilità una sua priorità?
Il tema dell’accessibilità è sicuramente un obiettivo tra i principali del Parco da circa dieci anni. A partire dal primo finanziamento comunitario del 2016 si sono diramate tante piccole sperimentazioni che, con la pandemia, ci hanno portato ragionare su scala urbana e sull’utenza primaria del parco. Non vogliamo parlare solo ai visitatori che vengono una volta nella vita, ma al pubblico locale: spesso gli stessi ragazzi di Pompei e Torre Annunziata visitano il sito solo durante la gita scolastica, e non vedono l’area come qualcosa di loro proprietà dove trascorrere il proprio tempo.
Qual è un progetto che, negli anni, è piaciuto molto a ragazze e ragazzi?
Il progetto teatrale Sogno di Volare, che quest’anno è giunto alla quarta edizione (con un finanziamento speciale di Madonna), e che porta i giovani a esibirsi con uno spettacolo al Teatro Grande. È un bel modo di prendere coscienza del fatto che questo è un loro luogo.
Giulia Giaume
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