Diventare fondazioni. Storia comune dei (nostri) musei
Prendendo spunto da un commento di una lettrice qui su Artribune, nasce un approfondimento sulla trasformazione dei musei in enti di diritto privato. Storia, motivi e percorsi. Più o meno sensati.
In Italia sono stati scritti importanti saggi e centinaia di testi sull’economia della cultura e sull’opzione aziendale e produttivista dei musei. Parallelamente, nuove leggi e nuove direttive sono state prodotte dallo Stato e dalle Regioni per la gestione del patrimonio culturale, tutto ciò nel contesto europeo di sviluppo da parte del sistema statale dei caratteri di redditività e managerialità legati al patrimonio museale pubblico.
Il problema della cosiddetta privatizzazione dei musei è stato ed è all’ordine del giorno in numerosi Paesi nei quali tradizionalmente la gestione del patrimonio culturale e delle istituzioni delegate a conservarlo sono di competenza statale, o comunque pubblica. Molti di questi Paesi hanno operato una vera e propria rivoluzione, affidando in blocco il proprio patrimonio a fondazioni private oppure optando per soluzioni che affiancavano soggetti privati a quelli pubblici.
La trasformazione dei musei statali olandesi in fondazioni di diritto privato è avvenuta tra il 1988 e il 1994, originando in tutta Europa un interesse sempre più consistente riguardo la possibilità di mettere “a sistema” le organizzazioni culturali. Anche la politica culturale della Francia negli ultimi decenni si è concentrata nella realizzazione dell’idea che si potesse ricercare una redditività diretta attraverso la gestione delle attività museali, concretizzandosi nella politica dei Grand Travaux (con una successione di realizzazioni dello Stato, ad esempio Beaubourg, Musée d’Orsay, Grand Louvre), nonché nella realizzazione della Réunion des Musées Nationaux, un’organizzazione commerciale e di produzione che avrebbe dovuto, con i suoi introiti, dare impulso all’acquisto di opere d’arte per i musei.
Nel panorama sempre più decisamente volto a una diversa interpretazione e qualificazione giuridica dei modelli organizzativi per le istituzioni culturali pubbliche, il legislatore italiano emanava il D. Lgs. 20 ottobre 1998, n.368, il quale prevedeva “ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali” che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali potesse stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e soggetti privati, nonché costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società (art.10). Lo sfruttamento della possibilità così prevista dall’ordinamento provocava pertanto la trasformazione in fondazione di vari enti autonomi, tra i quali la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma.
Con l’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. 22 gennaio 2004, n.42) non si prevede più esplicitamente la possibilità per le amministrazioni statali e locali di partecipare a enti privati e/o societari. Il legislatore consente a Stato, Regioni e altri enti pubblici territoriali di costituire appositi soggetti giuridici cui affidare l’elaborazione o lo sviluppo di piani strategici di sviluppo culturale e i programmi relativi ai beni culturali di pertinenza pubblica o anche di privati, con il consenso dei loro proprietari (art.112). La disciplina è ben attenta, altresì, a specificare che a tali “appositi soggetti giuridici” possono partecipare anche persone giuridiche private senza scopo di lucro, anche quando non dispongano di beni culturali oggetto della valorizzazione.
Nonostante la successione di norme nel tempo, poco cambia nella sostanza e nella realtà delle cose: l’amministrazione pubblica può prevedere l’affidamento della gestione dei beni culturali, mantenendone la proprietà, a soggetti di diritto privato. Ciò in un’ottica – oramai generalizzata – di preferenza per soggetti che abbiano, sia quale caratteristica strutturale che quale qualifica riconosciuta dall’opinione pubblica, un’efficienza economica dovuta alla necessità (almeno) di un pareggio di bilancio per poter sopravvivere. Normalmente dunque lo Stato giustifica di fronte ai cittadini la trasformazione delle proprie strutture in enti diversi da quelli di diritto pubblico con la ricerca di quella maggiore efficienza e maggiore economicità di gestione che storicamente non gli è riuscito di garantire.
Si tratta tuttavia di un terreno denso di tensioni. Se una riconfigurazione dei rapporti e degli equilibri tra pubblico e privato sembra sotto molti aspetti auspicabile, rimane la particolarità della natura stessi dei beni culturali che rende difficile il loro sfruttamento ai fini di redditività mutuati dalle imprese. Ciò non solo ponendo un problema di tipo squisitamente etico, ma anche presentando aspetti di difficile soluzione a livello giuridico.
Indubbiamente anche per le particolari premesse così descritte, il modello della fondazione sta vivendo in questi anni una fase di riscoperta e ammodernamento. In effetti, il modello giuridico della fondazione consente lo svolgimento di attività non lucrative in ambito culturale favorendo la collaborazione tra pubblico e privato, mediante l’organizzazione di un patrimonio destinato al sostegno delle attività svolte dall’ente senza, che l’oggetto di tutela possa essere svenduto o sfruttato commercialmente.
Se a livello teorico la scelta della trasformazione in fondazione ha un suo valore, nella pratica il fenomeno non sempre è virtuoso, assumendo a volte le forme di una vera e propria “moda”. Lo schema giuridico della fondazione ha infatti un valore se esistono tutta una serie di presupposti di fatto (organizzativi, dimensionali, economici) che giustificano la creazione di un ente autonomo di diritto privato dotato di propri organi, personale, economie di scala. Molto spesso, anche per dimensioni ridotte o non dotate di complessità organizzativa tale da rendere necessario un intervento di trasformazione, sono prese decisioni inefficienti dettate dalle “tendenze” del settore culturale, senza applicare né tantomeno considerare il principio fondamentale della sostenibilità e dell’autosufficienza delle forme organizzative (anche) culturali. Ciò rende spesso incomprensibili le scelte di trasformazioni in fondazione anche se operate in modo coerente, poiché immerse in un contesto poco “trasparente”.
Claudia Balocchini
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