Programmazione e controllo. Una utopia per la cultura?
“Linee guida per la gestione innovativa dei beni culturali”. Un documento ministeriale così si intitola. Ma i nostri operatori del settore sanno di cosa si sta parlando quando si cita la programmazione? E in Italia è possibile averne una?
“La programmazione rappresenta la declinazione, in termini quantitativi, delle scelte di tipo qualitativo, effettuate a livello strategico. Lo svolgimento della programmazione e del controllo transita, quindi, per la formulazione di un ‘sistema di piani’ (budget)”. In altre parole, si tratta di introdurre un sistema organico di procedure per verificare, sull’asse temporale prescelta, il rispetto o lo scostamento dagli obiettivi.
Sul punto anche il documento ministeriale Linee guida per la gestione innovativa dei beni culturali, che ribadisce l’importanza di una valutazione (pianificazione) che utilizzi come strumenti il conto economico e lo stato previsionale. In fase di programmazione, le scelte strategiche e l’impostazione del previsionale risultano fondamentali, poiché “permettono di ‘pesare economicamente’ le diverse attività e dunque di ottenere indicazioni rilevanti sul possibile assetto da assegnare loro”.
Per questo, programmazione e controllo dovrebbero entrare a far parte della “cassetta degli attrezzi” della direzione, o dei soggetti primariamente deputati, così come è opportuno che gli operatori culturali, a vario titolo inseriti nell’organizzazione, abbiano una minima cognizione di cosa significhi, in riferimento alla loro specifica attività, operare ispirati da un atteggiamento programmatorio e di monitoraggio.
Un gap di programmazione può incidere, negativamente, nella vita dell’istituzione culturale in termini di:
- gap di selezione (difficoltà a concentrare le risorse finanziarie in iniziative strategiche);
- gap di partnership (difficoltà nel costruire il network);
- gap di sviluppo (ritardi di sviluppo);
- gap di competitività (perdita di competitività);
- gap di reputazione (scarsa capacità di essere percepiti come “autorevoli”).
Fermi restando i benefici della programmazione per le imprese culturali, ci chiediamo quanto sia attuabile in un contesto fortemente basato sui contributi pubblici, nel quale i tagli o le variazioni (quasi sempre in meno) avvengono (quasi sempre) in corso d’anno, quando cioè anche il più imprudente degli amministratori ha già programmato le attività. Se è vero, però, che ci sono enti culturali che non “pensano programmando”, forse sarebbe il caso che i soggetti che finanziano ne tenessero conto, cominciando a privilegiare quelle realtà che non solo dimostrano di farlo, ma anche di saperlo fare. Perché che senso ha la programmazione senza il controllo?
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
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