Istituzioni culturali, “considerate la vostra semenza”
Lo scorso intervento di Irene Sanesi era dedicato alla missione, regina nuda delle istituzioni culturali, per sottolineare come spesso si dimentichi le finalità per cui una determinata impresa è nata e ha trovato sostenitori motivati nei fondatori. Ma facciamo ancora un passo indietro e andiamo alla costituzione dell’istituzione: perché, cosa, chi? E soprattutto: come?
Essere una fondazione è cosa ben diversa dall’associazione o dal comitato, passando dalle diverse casistiche intermedie come le fondazioni di partecipazione, o da fattispecie giuridiche ancora sperimentali quali le fondazioni di comunità. Eppure l’esperienza ci racconta di imprese culturali il cui habitus giuridico non sempre è stato oggetto di una scelta meditata. Scelta che andava e va fatta facendosi le semplici domande: perché, cosa, chi, e che non è mai saggio sia fatta seguendo le tendenze del momento. Se infatti l’interpretazione della giurisprudenza e lo studio di casi stranieri conducono a interessanti evoluzioni (si pensi ai trust), è anche vero che il nostro codice civile è estremamente parco nell’elencare nel titolo I le forme per realizzare una precisa finalità senza che lo scopo sia il lucro, distinte appunto dalle società del titolo V, per cui vi è alla base un contratto con lo scopo di dividerne gli utili e viene svolta un’attività commerciale.
Così una fondazione può nascere su impulso anche di un singolo che mette a disposizione un fondo e un patrimonio che dovranno essere gestiti e valorizzati in maniera da creare valore, mentre un’associazione si forma per la volontà di una pluralità di soggetti che condividono una progettualità e si organizzano per realizzarla. Nel primo caso è bene tener presente che il fondo/patrimonio è la ragion d’essere dell’istituzione culturale, prima ancora delle attività a corredo e, conseguentemente, lo statuto avrà il compito di individuare bene lo scopo prima di elencare le molteplici cose da fare o che si possono fare. Quante fondazioni in Italia sembrano aver confuso o semplicemente dimenticato il perché della loro esistenza affaccendate dal “fare”, tanto qualsiasi attività è ben riconducibile nella generica ma onnipresente (!) articolazione residuale che tutto accoglie. E qui non ci riferiamo al lucro o al commerciale. Prima ancora del riconoscimento della personalità giuridica, viatico insostituibile per le imprese – in questo caso le associazioni, visto che per le fondazioni è ex lege – che “vogliono fare sul serio”, prima dell’autonomia patrimoniale e finanziaria, prima dei regolamenti e delle buone pratiche, prima della contabilità, vi è una questione di senso da affrontare.
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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