Marchi celebri e arte. Un rapporto burrascoso

La storia giuridica insegna che spesso, nelle cause contro i grandi brand, a vincere sono gli artisti. Ecco una piccola storia di Davide contro Golia ambientata nell’arte contemporanea. Con una serie di casi europei e americani. Cosa succederà in Italia, quando si presenterà l’occasione?

A partire dagli Anni Sessanta del secolo scorso e in particolare dalla nascita della Pop Art – che documenta il cambiamento dei valori legati al consumismo – abbiamo assistito a una esplosione di riproduzioni nelle opere d’arte di segni distintivi (celebri) di famose aziende, in particolare del settore alimentare o del lusso.
Si pensi, solo per fare qualche esempio, alle opere di Andy Warhol (per tutte Big Campbell del 1968) e Mario Schifano (Coca-Cola del 1962), o a quelle di artisti contemporanei come il writer Zevs (i cui graffiti mostrano i loghi liquefatti di brand famosi), Sylvie Fleury (Shopping Bag del 1990) o Tomoko Nagao (Leonardo da Vinci-The Last Supper with MC, Easyjet, Coca-Cola, Nutella, Esselunga, IKEA, Google and Lady Gaga del 2014).

QUANDO C’È CONTRAFFAZIONE?

Questi usi di un segno distintivo altrui costituiscono contraffazione?
L’art. 20 del Codice della Proprietà Industriale stabilisce che il titolare di un marchio ha il diritto di vietare a terzi, salvo il proprio consenso, di usare nell’attività economica un segno uguale e/o simile per prodotti o servizi identici e/o affini. Bisogna quindi chiedersi innanzitutto se la riproduzione di un marchio altrui in un’opera d’arte può essere considerato un uso “nell’attività economica”.
La giurisprudenza italiana non ha ancora avuto occasione di pronunciarsi sul punto. Si possono però ricavare alcuni spunti da pronunce delle corti internazionali, comunitarie e americane.

Nadia Plesner, Darfurnica, 2011

Nadia Plesner, Darfurnica, 2011

SE VUITTON VA IN DARFUR (A SUA INSAPUTA)

A livello internazionale, una decisione interessante è quella emanata dalla Corte dell’Aja il 4 maggio 2011 nel caso che ha visto contrapposti Louis Vuitton e l’artista danese Nadia Plesner, la quale, per attirare l’attenzione sulla difficile situazione interna del Darfur, ha raffigurato nella sua opera intitolata Darfunica un bambino africano che porta al braccio la borsa Audra della maison francese con sopra impresso il celebre marchio. L’opera è stata riprodotta anche su t-shirt e poster venduti nell’ambito di alcune esposizioni e i ricavati delle vendite sono stati devoluti ai parenti delle vittime del Darfur.
Louis Vuitton aveva lamentato che questa associazione comportasse un danno alla reputazione dell’azienda e una violazione dei suoi diritti di proprietà industriale. La Corte dell’Aja ha tuttavia riconosciuto che l’uso fatto dall’artista dei diritti di proprietà industriale all’interno dei suoi quadri fosse “funzionale e proporzionato” e non volto a un “mero fine commerciale”. Effettuando quindi un bilanciamento dei vari diritti in gioco, la Corte ha giudicato prevalente quello di libertà di espressione artistica sancito dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – che comprende, secondo l’interpretazione data dalla Corte, anche quello di “offendere, scioccare o disturbare” attraverso un’opera d’arte – rispetto a quello di proprietà, inclusi i diritti di proprietà industriale e quindi i segni distintivi, previsto dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione.

VINCE LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE

Quanto ai limiti della portata dei diritti del titolare del marchio, a livello comunitario già da molti anni si è evidenziato come l’adozione di un’interpretazione troppo rigorosa avrebbe privato l’arte contemporanea di alcuni dei suoi quadri più espressivi mentre il giudizio, caso per caso, debba necessariamente tenere conto (anche) della libertà artistica e di espressione (cfr. Conclusioni del 13 giugno 2002 dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia UE nel noto caso “Arsenal”).
La questione è stata presa in considerazione anche dal legislatore comunitario. Di libertà di espressione artistica parlano infatti ora, rispettivamente, il ventisettesimo Considerando della (nuova) Direttiva (UE) 2015/2436 e il ventunesimo Considerando del (nuovo) Regolamento 2015/2424/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2015, affermando che “L’uso di un marchio d’impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. Inoltre, la presente direttiva [il presente regolamento] dovrebbe essere applicata[o] in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione”.
Di questi enunciati si dovrà dunque tener conto in eventuali casi di utilizzo di segni distintivi all’interno di opere d’arte.

Zevs. Louis Vuitton

Zevs. Louis Vuitton

IL PUBBLICO È PIÙ INTELLIGENTE DI QUANTO SI CREDA

Oltre oceano, la riproduzione di segni distintivi in opere d’arte è stata oggetto, già da anni, di alcune importanti pronunce giurisprudenziali, volte per lo più a riconoscerne la liceità in applicazione delle disposizioni in tema di cosiddetto “fair use”, ovvero quelle disposizioni dell’ordinamento americano in base alle quali si stabiliscono, sotto alcune condizioni, la liceità della citazione non autorizzata, o l’incorporazione non autorizzata, nell’opera di un altro autore, di materiale protetto da copyright.
Così nel caso delle opere del fotografo Thomas Forsythe che riproducono la bambola Barbie, quale stereotipo di bellezza e di oggettivazione della donna, in posizioni e situazioni critiche (ad esempio, a pezzi in una pentola), il tribunale americano ha ritenuto che l’uso delle bambole – veri e propri marchi di fatto della Mattel – potesse ritenersi lecito, in quanto “trasformative”, ovvero “add[ing] something new, with a further purpose or different character, altering the first with new expression, meaning, or message” (Mattel Inc. v. Walking Mountain Productions, 353 F. 3d 792 – Court of Appeals, 9th Circuit 2003).
Allo stesso modo, e sempre con oggetto la nota bambola, nel caso della famosa canzone Barbie Girl del gruppo danese degli Aqua che prendeva in giro Barbie e il suo mondo di plastica, il tribunale ha ritenuto che l’uso del nome della bambola nel testo e nel titolo della canzone non inducesse in errore i consumatori o suggerisse che il pezzo fosse stato realizzato dalla Mattel, con conseguente rigetto delle lamentele avanzate dalla multinazionale americana (Mattel, Inc. v. MCA Records, Inc., 296 F. 3d 894 – Court of Appeals, 9th Circuit 2002).
Più recentemente, la liceità dell’uso di segni distintivi in opere tutelate dal diritto d’autore è stata ribadita anche nel caso della riproduzione di alcune borse contraffatte (sempre) di Louis Vuitton nel film The Hangover Part II (in Italia, Una notte da leoni 2), dove il tribunale americano ha giudicato che l’uso delle borse di Louis Vuitton avesse rilevanza artistica con la trama e un intento umoristico, senza alcun effetto fuorviante per gli spettatori della commedia che non avrebbero certo potuto credere che la nota casa di moda avesse prodotto o approvato il film, ribadendo chiaramente come “in a case such as this one, no amount of discovery will tilt the scales in favour of the mark holder at the expense of the public’s right to free expression” (Louis Vuitton Mallatier SA v. Warner Brothers Entertainment Inc 868 F Supp 2d 172).

– Federica Minio e Gilberto Cavagna di Gualdana

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Gilberto Cavagna di Gualdana

Gilberto Cavagna di Gualdana

Avvocato cassazionista specializzato in diritto della proprietà industriale e intellettuale, con particolare attenzione al diritto dell’arte e dei beni culturali. Già consulente legale di Expo 2015 S.p.A., prima di fondare BIPART, studio legale italiano specializzato in diritto della proprietà intellettuale…

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