L’impresa culturale aumentata. Pronti a vendere?
Irene Sanesi descrive da vicino la nuova generazione di imprenditori culturali italiani. Sottolineandone i punti di forza.
Sta nascendo, complici anche alcune esperienze e bandi intelligentemente selettivi (tra questi Funder35, cheFare, Nana Bianca, Hangar), una nuova generazione di imprenditori culturali. Sono giovani (per la media italiana), si stanno posizionando su mercati che implicano investimenti ben maggiori del solo tempo labour intensive, considerano il volontariato marginale rispetto a una forte spinta motivazionale, hanno la capacità di passare alla fase esecutiva e distributiva e non si fermano solo a quella di esplorazione e ideazione.
È su un gioco di scarti e di differenze che si sta vincendo la difficile partita del fare impresa culturale, anche se siamo appena all’inizio. In primo luogo, il superamento del “progettificio”, per troppo tempo unico motore delle new company pronte ad avviarsi intorno a un’idea “estemporanea”, più difficilmente attrezzate per la sostenibilità di quell’idea di partenza nel lungo corso. In secondo luogo, la nuova impresa culturale si smarca dal “pauperismo gestionale” per dotarsi di una cassetta degli attrezzi articolata, che affianchi l’imprenditore dal business plan originario al controllo di gestione per aree strategiche. Arricchisce questa filiera una crescente e da tempo attesa sensibilità sulla valutazione di impatto ex ante, e non solo ex post, pronta a impregnare la value proposition costitutiva e a misurarsi in maniera costruttiva e critica con il work in progress imprenditivo.
“La domanda è: ‘Tra cinque anni saresti disposto/a a vendere la tua impresa?’”.
Non è un caso che, nella griglia di domande utili nella fase di analisi quando accompagno le start-up culturali, ne abbia scelta qualcuna che suona più come una provocazione, soprattutto se pensiamo al contesto e al mercato di riferimento (quello culturale), alla natura giuridica in genere privilegiata (l’associazione o la cooperativa) e all’innamoramento sintomatico dei professionisti culturali verso la loro idea/progetto. La domanda è: “Tra cinque anni saresti disposto/a a vendere la tua impresa?”. Si capisce che dentro ci sta tutto: il fatto che l’impresa sia ancora in vita (dopo cinque anni non è così scontato), sia posizionata sul mercato (efficacia, efficienza, economicità sono diventate le risposte concrete al make or buy iniziale), sia florida a tal punto da essere divenuta interessante per qualche investitore (culture venture capitalist, venture philantropist, fondi ecc.). In altre parole: abbia un valore. Dalla value proposition l’impresa culturale ne ha fatta, di strada.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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