Street Art, leggi e tutela
Giovanni Maria Riccio, professore di Legislazione dei beni culturali e di Diritto d’autore all’Università di Salerno, fa il punto sulle normative che regolano (o dovrebbero regolare) i diritti degli street artist e dei proprietari degli immobili su cui trovano spazio murales e interventi urbani.
Serve una legge per la Street Art? E che cos’è la Street Art? Il diritto tende a qualificare fenomeni sociali. Quindi, parafrasando Carver – ma qui, per fortuna, l’amore non c’entra nulla –, dovremmo chiederci di cosa parliamo quando parliamo di Street Art. Generalmente, con le espressioni Street Art, Urban Art, Graffiti Art e così via discorrendo si fa riferimento alle opere che sono collocate in uno spazio pubblico, liberamente accessibili dalla collettività. Pur riconoscendo la sua portata onnicomprensiva, è una delimitazione imprecisa, che non aiuta. Difatti, se tale delimitazione fosse corretta, tutte le opere, anche le innumerevoli statue equestri che adornano le nostre città, dovrebbero essere collocate nell’alveo della Street Art. Il problema, però, è altro: non esiste alcun movimento, né alcuna locuzione che accomuni realmente forme e manifestazioni differenti, per ragioni artistiche, politiche e giuridiche.
Basti pensare alla discrepanza tra la realizzazione di opere autorizzate in contesti urbani – i casi sarebbero innumerevoli, presenti da anni in metropoli e in città di provincia – e i tag che, a seconda degli angoli di visuale, imbrattano o adornano vagoni di treni e metropolitane, esponendo i loro autori a incappare nelle maglie del reato di vandalismo e deturpamento. Fenomeni che si specchiano nella schizofrenia di politici e amministratori locali che, da un lato, attraggono consenso popolare promettendo il ritorno a un non meglio chiarito decoro urbano e, dall’altro, finanziano opere e destinano interi quartieri a ciò che, evidentemente, non è più considerato vandalismo, ma arte.
La ragione probabilmente è da rintracciare in un progressivo ritorno nell’ambito del figurativismo, che facilita la fruibilità di talune opere che, progressivamente, penetrano nei gusti del grande pubblico. La Street Art, però, almeno nella sua matrice primordiale, nasce come strumento per riprendersi spazi sociali, luoghi organizzati verticalmente dal potere. Una riappropriazione artistica, ma, prima ancora, politica, nell’accezione più ampia del termine. È questo un profilo che non può essere trascurato e che spiega la natura di queste forme di manifestazione, difficilmente conciliabili con il tentativo di irreggimentarle in spazi chiusi, assegnati, determinati da quella stessa autorità rispetto alla quale si vorrebbe rappresentare estraneità e dissenso.
Né può essere dimenticato che alcuni street artist – considerati l’ala più radicale di questo presunto movimento – non vedono nei loro lavori un’opera d’arte, ma manifestazioni convogliate verso forme espressive legate, come nel caso dei tag, all’affermazione del sé, in qualche caso alla delimitazione del territorio e, come già detto, alla riappropriazione degli spazi urbani.
STREET ART E DIRITTI SULLE OPERE
I giuristi che si sono occupati di Street Art – al di là dei temi di rilevanza penalistica – hanno solitamente analizzato due aspetti, afferenti all’applicabilità delle regole sul diritto d’autore e al regime proprietario applicabile alle opere.
In altri termini, se stampo su una t-shirt un’opera di Jef Aérosol devo pagare dei diritti agli autori? Senza voler banalizzare il discorso, la risposta non può che essere affermativa. E, per chiarire meglio il punto, forse conviene ricordare che il diritto d’autore accorda protezione anche alle opere che sono la risultante di un’azione illecita.
Più complesso è il discorso proprietario. Gli sforzi dottrinari di applicare istituti del codice civile – quali l’occupazione e l’usucapione – alle opere realizzate su edifici di proprietà di altri soggetti risultano inadeguati. Si tratta di ipotesi pensate per fenomeni differenti, in un’altra epoca storica – è appena il caso di ricordare che il codice è del 1942 ‒, e che rispondono a interessi economici e sociali diversi, essendo legati a ideali produttivistici che non combaciano con quelli che dovrebbero essere alla base della tutela dei beni culturali.
“Una strada alternativa, non praticabile però in tutti i casi, potrebbe essere quella di disporre vincoli di interesse storico-artistico su interi quartieri nei quali sono state realizzate le opere“.
Tra i mille aspetti da considerare nell’avvicinarsi alla Street Art ve n’è uno che non può essere sottaciuto. Molto spesso i temi che contraddistinguono le opere sono caratterizzati da un collegamento col territorio: si pensi a molti lavori di Banksy, così come, per rimanere in ambito nazionale, ai murales di Jorit a Napoli o al Nido di vespe di Lucamaleonte, dove l’opera riprende il titolo dall’appellativo che i nazisti vollero riservare al quartiere periferico romano dove si riteneva fossero nascosti partigiani ed ebrei.
Ha senso fare appello alle tradizionali categorie proprietarie, in cui perdura la dicotomia tra pubblico e privato? Oppure possiamo immaginare che queste opere siano di coloro che le vivono e che vivono nell’ambito sociale e locale in cui esse sono collocate, e che, dunque, tali opere possano essere considerate quali beni comuni? Beni comuni nel senso che non sono né beni privati né beni pubblici: sono, appunto, beni comuni, che vivono di senso nel contesto in cui sono realizzati e in cui operano e che sfuggono alle canoniche regole proprietarie.
TUTELARE IL PATRIMONIO CULTURALE
L’impostazione suggerita consente anche di accantonare il profilo dei regimi di appartenenza dell’opera, la cui tutela, ancor prima che sul piano privatistico e proprietario, andrebbe considerata alla luce di interessi comuni. La centralità della riflessione, quindi, dovrebbe essere indirizzata verso la preservazione e la tutela delle opere di arte urbana, nello specifico contesto in cui sono state realizzate.
La questione più ricorrente che si pone è la seguente: può il proprietario di un muro, su cui è stata realizzata un’opera, cancellarla o distruggere il muro? Sussiste un obbligo – come, ad esempio, nella legislazione americana – di provare a rintracciare l’artista, interrogandolo sulla sua eventuale disponibilità a rimuovere (laddove tecnicamente possibile) l’opera? Evidente corollario di tale quesito è quanto avvenuto in anni recenti a Bologna: è legittimo acquistare i muri con le opere ed esporli in mostre, organizzate da privati, senza il coinvolgimento (e la remunerazione) degli artisti? Ancora una volta, possiamo affrontare la questione sul piano squisitamente privatistico oppure interrogarci sugli interessi della collettività. In altre parole, prima di chiederci a chi appartenga il bene o se sia possibile distruggerlo, dovremmo forse ragionare sugli strumenti per preservare un patrimonio che, in assenza di tutele chiare, rischia di essere danneggiato o saccheggiato, e provare a bilanciare la posizione dei proprietari degli immobili su cui sono realizzate le opere, quella degli artisti e quella della collettività.
Serve quindi una legge per la Street Art? Probabilmente sì. Una legge che potrebbe prevedere, innanzitutto, che il proprietario di un immobile, prima di procedere alla distruzione o all’alterazione dell’opera stessa, debba inviare una comunicazione alla Soprintendenza competente per territorio, in cui manifesta la propria volontà. Dal canto suo, la Soprintendenza dovrebbe avere un certo lasso di tempo per valutare l’opera, eventualmente disporre un vincolo sulla stessa e rispondere al proprietario dell’immobile.
In caso di mancata risposta, dovrebbe valere un meccanismo di silenzio-assenso, in virtù del quale il proprietario sarebbe legittimato alla distruzione o all’alterazione dell’opera. Inoltre, la Soprintendenza dovrebbe essere assistita da una commissione di esperti – composta anche da street artist –, che dovrebbe essere sentita prima di disporre un vincolo o di autorizzare la distruzione.
STRADE ALTERNATIVE
Una strada alternativa, non praticabile però in tutti i casi, potrebbe essere quella di disporre vincoli di interesse storico-artistico su interi quartieri nei quali sono state realizzate le opere. Questa misura non interesserebbe principalmente i casi in cui le opere siano state autorizzate o addirittura finanziate dalle amministrazioni locali, quanto quelle aree – si pensi, ad esempio, a Shoreditch a Londra o a San Lorenzo a Roma – che sono state scelte come territori di elezione da parte degli artisti.
Un percorso già avviato da alcune municipalità (si pensi a Roma, con lo storico quartiere Coppedè), che muove dagli articoli 137 e seguenti del Codice dei beni culturali, che disciplinano la procedura di dichiarazione di notevole interesse pubblico non solo per singoli edifici, ma anche per intere aree, al fine, per usare le parole dell’art. 138, di preservare la “loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono”. Una soluzione forse ingombrante, ma che pare rispondere pienamente alle necessità delle opere di strada.
Sono semplici proposte, che forse andrebbero discusse collettivamente, per mezzo di strumenti di inclusione democratica nella determinazione dei processi giuridici. Il patrimonio culturale è la più grande ricchezza del nostro Paese, a cui l’art. 9 della nostra Carta costituzionale riconosce piena tutela e promozione: forse sarebbe il caso di fermarci a riflettere e di evitare che un pezzo di questo patrimonio possa finire vittima di imbianchini e ruspe.
‒ Giovanni Maria Riccio
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