Burocrazie negative: un caso di razzismo burocratico che riguarda il comparto dell’alta formazione
Nel comparto dell’Alta Formazione artistica, musicale e coreutica si verifica l’ennesimo caso di insensatezza burocratica, questa volta a danno dei docenti operanti nell’ambito delle arti e della musica. Vediamo perché.
“La burocrazia ferma le cose e le persone da una vita creativa. È contro tutte le cose di cui si occupa la vita”. Tim Burton, col bisturi del suo sguardo altro, ha efficacemente restituito il cuore del problema in una sintesi che contrappone vita vera e sopravvivenza vegetale. Pare che i docenti dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica appartengano a una nuova razza di docenti che meritano, per prassi consolidata quando non per legge, una sorta di apartheid reiterato tutte le volte che una qualche norma dovrebbe ricomprenderli. E questo accade – all’interno delle disposizioni normative – a tutti i livelli. Tanto che esiste, nel settore, una squadra di verificatori, delle leggi e dei decreti, che raccolgono le nuove stoltezze leguleie nel libro delle disparità preesistenti: un’infinita enciclopedia che da un quarto di secolo si è allargata a dismisura e ha letteralmente fatto sfumare il futuro accademico e professionale di almeno un paio di generazioni di studenti (artisti, musicisti, designer). Per fortuna la tendenza sta per cambiare anche grazie al lavoro che il Ministro Manfredi sta mettendo in piedi sulle normative Afam.
IL RAZZISMO BUROCRATICO DEL COMPARTO AFAM
Un nuovo atto di razzismo burocratico si è abbattuto, ancora una volta, sull’alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica. La “sperequazione” è stata raccolta e registrata da un’interrogazione parlamentare al Ministro dell’Istruzione presentata alla Camera. Il decreto n. 497 del Ministero della Pubblica Istruzione, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 34 del 29/04/2020, recante le indicazioni per la procedura straordinaria – per esami – finalizzati ai percorsi di abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado, sancisce che i docenti Afam non possano essere nominati presidenti di commissione. Medesima cosa accade nel decreto n. 510, riguardante la procedura per titoli ed esami per l’immissione in ruolo nelle medesime tipologie di scuole, con l’aggravante che – in più – si opera un’inspiegabile distinzione all’interno dello stesso sistema Afam. Ovvero, in questo caso, è consentita la presidenza ai soli docenti dell’Accademia Nazionale di Danza, anch’essi appartenenti all’Afam, ma non è consentita ai docenti di Conservatori di Musica, Accademie di Belle Arti e ISIA. La cosa più inquietante è che non si tratta di una dimenticanza, ma piuttosto di una balistica missione articida. Infatti, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione del Ministero, in data 6 aprile 2020, all’interno di un parere molto articolato, aveva segnalato la necessità di modificare il comma 1 dell’art. 7 dello schema di decreto, scrivendo nero su bianco che: “il CSPI ritiene che debba essere data la possibilità anche ai docenti Afam di svolgere l’incarico di presidente per le classi di concorso attinenti al settore artistico con riferimento alla disciplina di titolarità”. Suggerimento più che corretto. Ma l’estensore del decreto 497, nelle premesse del provvedimento, ha sentito l’esigenza di confermare formalmente il divieto rigettando in toto l’invito del CSPI: “Ritenuto di non accogliere la richiesta del CSPI di modificare l’art. 7, comma 1, in quanto i suddetti docenti non possono ritenersi equiparati alle categorie che, secondo la normativa vigente, possono ricoprire le funzioni di presidente di commissione nella procedura di cui al presente decreto”. Quali siano queste norme che lo impedirebbero non è dato saperlo. Ma se anche ci fossero, non si comprende allora perché i docenti di una delle istituzioni Afam, l’Accademia Nazionale di Danza, possano invece farlo (per effetto del decreto n. 510 citato).
COMPARTO AFAM: IL PRISMA DELLA RIFORMA
Per contro, laddove pure persistano disposizioni ignote impeditive (quali e risalenti a quando?), giova leggere la disciplina vigente nel prisma della riforma del 1999. La L. 21 dicembre 1999, n. 508, ha previsto che le Afam, come da art. 33 della Costituzione, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Nessun dubbio può nutrirsi sulla portata innovativa della qualificazione, perché, sino all’entrata in vigore della riforma, gli enti sopra indicati rientravano nel più vasto lignaggio degli istituti di istruzione artistica sottoposti alla vigilanza diretta del Ministero della Pubblica Istruzione e la loro disciplina era dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, ossia dal testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado. La diversa qualificazione data ed il richiamo all’art. 33 Cost., sono stati posti dal legislatore alla base del riconoscimento dell’autonomia “statutaria, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile“, riconoscimento che ha comportato la riduzione dei poteri ministeriali a meri poteri di programmazione, indirizzo e coordinamento con il definitivo superamento del potere di vigilanza, sebbene si assista da tempo a tentativi di vera e propria restaurazione valutocratica, che nulla ha a che vedere con la necessaria valutazione. Le conclusioni affermate nell’atto ministeriale appaiono quindi esondare dalla ragionevolezza oltre che peccare di oscurità e forse pure di “derisione” verso un settore strategico per l’interesse nazionale, peraltro introducendo una differenza di trattamento tra le stesse istituzioni dell’Alta formazione che appare priva di senso compiuto. Qual è il motivo di tale trattamento differenziato? Si tratta forse di uno dei tanti misteri inviolabili della burocrazia che, in questo caso è declinata verso l’area di una forma sofisticata di razzismo burocratico. Per l’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica non è la prima volta e, temiamo, non sarà l’ultima.
LA BUROCRAZIA HA RADICI ANTICHISSIME
Burocrazia è una parola che accende i nostri sensi più reconditi ed è in grado di generare tossine di anti-civismo, soprattutto nell’ampio territorio della cosiddetta burocrazia difensiva (dove nessuno decide e dove il “qualcunaltrismo” è la regola). Persino in questi tempi di crisi da coronavirus la burocrazia agisce come Atlante e porta sul suo dorso le ingiustizie del mondo. Ma che cos’è la burocrazia, quali sono le sue origini? Chi dice “burocrazia” dice “amministrazione”, e chi dice “amministrazione” dice “Stato”. La storia della burocrazia (anche se la parola è stata creata solo nel 1759, in Francia) è identica alla storia degli Stati. Per dirlo in termini molto essenziali, i primi Stati nascono circa cinquemila anni fa in Egitto, in Mesopotamia e in Cina – e nascono imponendosi a piccoli potentati locali. I nuovi monarchi centrali, come l’Imperatore cinese e il faraone, debbono però convivere con i capi locali a cui lasciano una parte del potere. Questi esercitano il loro potere in nome del potere centrale, ma non appena possono seguono i propri interessi e cercano di riprendersi la loro autonomia alla prima occasione, fino alla secessione. I giuramenti di fedeltà delle aristocrazie locali al potere centrale non sono mai valsi molto. Perciò il potere centrale dipende dai poteri locali almeno altrettanto quanto il potere locale dipende dal potere centrale – ciò era vero nell’Egitto dei faraoni come nella Francia del 1500. I poteri centrali si difendevano allora creando le amministrazioni, cioè le burocrazie: persone stipendiate dal potere centrale, senza un potere personale, familiare o ereditato, che devono tutto al loro padrone che le può nominare e revocare a suo piacimento. L’aumento storico delle burocrazie è proporzionale al ruolo accresciuto dei monarchi centrali. Certo, poi ogni Stato organizza le burocrazie a modo suo.
I CRITERI PER LA NOMINA DEGLI AMMINISTRATORI
In Cina, i concorsi per amministratori si basavano sulle conoscenze letterarie. Utilizzare questo sistema oggi darebbe dei risultati curiosi. Ma almeno in Francia, ad esempio, il criterio non è del tutto assente. Nel 2006, Nicolas Sarkozy, allora candidato alla presidenza della Repubblica francese, commentava cosi il fatto che in quell’anno il programma del concorso per assistente amministrativo comprendeva delle domande su La principessa di Clèves, famoso romanzo di Madame de La Fayette del 1678: “Un sadico oppure un imbecille, scegliete, aveva messo nel programma di interrogare i candidati su La principessa di Clèves. Non so se vi è capitato spesso di chiedere all’impiegata allo sportello ciò che pensa della Principessa di Clèves. Immaginate un po’ che spettacolo!”. Questa battuta ha suscitato un’ondata di indignazione. La cultura, insomma, come antidoto per estirpare il virus della falsa oggettività, che in molti hanno potuto incontrare nei meandri delle burocrazie negative. Ma in generale i poteri si mostrano molto meno esigenti con gli amministratori che reclutano. Se nessuno Stato moderno, cioè del dopo-Medioevo, è esente dall’aumento della burocrazia, erano tuttavia la Prussia e la Francia che nel 1700 le facevano fare un “salto di qualità”. Alexis de Tocqueville rifletté nel suo famoso lavoro su L’Antico regime e la rivoluzione (1856) sulla continuità effettiva tra monarchia e regimi post-rivoluzionari in Francia celata dietro la superficie dei mutamenti politici. Una continuità che è largamente dovuta alle amministrazioni, alla loro inerzia, alle loro routine. Una scoperta che possiamo verificare quotidianamente: i governi, i ministri, gli orientamenti politici ed economici vanno e vengono, ma il comportamento delle burocrazie rimane largamente lo stesso. I dirigenti ministeriali hanno la vita ben più lunga dei ministri e probabilmente contano molto di più, in fin dei conti.
L’IMPERSONALITÀ DELLA BUROCRAZIA
La riflessione più famosa sulla burocrazia è quella di Max Weber contenuta in Economia e società (1920). Egli descrive soprattutto il lato impersonale e oggettivo della burocrazia. Anche oggi, l’indifferenza dei funzionari per le conseguenze dei loro atti è tra le prime cose che ci vengono in mente pensando alle burocrazie. Ci dicono allo sportello, dopo che abbiamo fatto tre ore di fila: “Qui manca un timbro, vada in quell’altro ufficio a farlo mettere, poi torni domani”, indifferente a ciò che questo puntiglio comporta per noi. Ma forse è proprio a causa di questa impersonalità che sopportiamo la burocrazia, nonostante tutto: non è, in linea di principio, l’azione di una persona contro un’altra. Il burocrate “applica solo le regole”, “segue il regolamento”. Questo evita i sentimenti di umiliazione, forse ben più cogenti, che ci procurerebbe la sensazione di dover sottostare all’arbitrio di qualcuno che esercita il suo potere su di noi in modo discrezionale: se l’impiegato in questione ci dicesse: “la tua testa non mi piace, inoltre hai una maglietta della Juve, perciò non accetto la tua domanda e non ti verso nessuna pensione” sentiremmo una rabbia ancora più grande. In verità, tali abusi avvengono piuttosto spesso: i burocrati, grandi e piccoli, esercitano il loro ruolo non con fredda imparzialità. Ma in questi casi abbiamo la sensazione che il burocrate violi le regole stesse della burocrazia e che eserciti il suo potere, conferitogli da un “potere centrale” (oggi considerato “democratico”), in un modo “feudale”. In questo caso, non è il funzionamento della burocrazia che ci mette in collera, ma il suo non-funzionamento, il fatto di obbedire alle logiche di un altro campo.
COMPARTO AFAM: LA BUROCRAZIA E L’ARTE DEL PREGIUDIZIO
Ecco, proprio la coltivazione di un campo che non si conosce conduce qualche funzionario verso l’alea dell’errore, magari ammantato di una luce che neanche lo tocca: come non lo toccano le conseguenze. Nel nostro caso, la conferma della continuità trasversale delle false efficienze della burocrazia (ma bisogna dire, per onestà intellettuale, che non sempre per fortuna è così: ci sono anche esempi di funzionari illuminati) dimostra quanta strada c’è ancora da percorrere per annientare quei pregiudizi sull’arte e gli artisti che persino Gustave Flaubert narrava, nel suo “Dizionario dei luoghi comuni”, con malcelata ironia: “Artisti: il loro non si può chiamare lavoro”. Forse il solerte estensore dei decreti citati avrà letto Flaubert. È già qualcosa.
– Antonio Bisaccia
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