Riproduzione delle immagini di opere d’arte: cosa dice la legge italiana

In Italia, rispetto ad altri Paesi, i diritti di riproduzione delle immagini relative a opere d’arte sono gestiti in maniera ancora piuttosto ferrea. Ma quali vantaggi deriverebbero da una gestione più “leggera”?

Da qualche anno, il tema della gestione dei diritti di riproduzione delle immagini di opere d’arte si ripresenta, a intervalli più o meno regolari, nel dibattito pubblico relativo alla gestione del nostro patrimonio culturale. Sebbene possa a prima vista apparire come appannaggio esclusivamente specialistico, questo argomento presenta delle caratteristiche che, a ben vedere, meritano un approccio più ampio, perché rappresentano, in qualche modo, un “piccolo terreno di battaglia” su cui si concretizzano due opposte interpretazioni del nostro patrimonio e delle sue funzioni all’interno della nostra vita sociale.
Quindi, andando a semplificare, la questione è più o meno questa: chi può usare le immagini delle opere nei musei? E con quali scopi? La risposta a queste domande varia molto a seconda della “fazione”: da un lato ci sono i conservatori, che vorrebbero la riproduzione delle opere “vietata”, dall’altra coloro che invece vorrebbero liberalizzarne completamente la circolazione. Nel nostro Paese, dal punto di vista legislativo, si è imposta una condizione che, in qualche modo, riflette l’intrinseca tensione che da anni accompagna il tema della gestione culturale: aprire alle innovazioni che si affermano sul contesto internazionale ma senza scontentare una roccaforte di pensiero che ancora individua nel “privato” e nel “profitto” un nemico della “cultura”. In altri termini, si possono sì scattare immagini, ma non si possono riutilizzare per motivi commerciali e, in genere, di lucro.
In altri Paesi, e soprattutto nella cultura statunitense, sono invece molti i musei che, mostrando un orientamento differente, hanno distribuito le immagini delle opere custodite che rientrano nel “pubblico dominio” con la licenza Creative Commons Zero, un protocollo che “libera” ogni tipologia di utilizzo consentita dalla legge.
Se i motivi dell’anti lucro sono ben noti nel nostro Paese, le ragioni di coloro che promuovono una libera circolazione delle immagini sono ben espresse dalle parole di William Griswold, direttore del Cleveland Art Museum: “In qualunque modo il pubblico li intenda usare, riusare, remixare e reinventare, gli oggetti inseriti nella nostra collezione sono disponibili, così come dovrebbe essere, perché noi, qui, nel museo, siamo soltanto dei ‘prestatori di cure’ di tali oggetti che invece appartengono di diritto all’eredità artistica di tutti”.

Chi può usare le immagini delle opere nei musei? E con quali scopi?

A questo punto è palese che la tematica sollevi argomenti ben più estesi della gestione dei “diritti”, andando a coinvolgere direttamente distinte visioni del ruolo del patrimonio culturale, dei musei, e dell’appartenenza delle opere all’umanità intera. Ciò che è “meno palese”, e che forse merita una riflessione più approfondita, è che la questione, oltre che con un approccio ideologico, potrebbe essere affrontata anche da un punto di vista più neutro e tecnico. Al netto di ogni posizione ideologica, infatti, appare chiaro che, a oggi, la gestione dei diritti delle immagini nel nostro Paese sia un settore poco efficace, che presenta alcuni “costi sociali” che potrebbero essere quantomeno ridotti. Ogni “limitazione”, infatti, richiede degli “interventi”; per ogni legge c’è bisogno di qualcuno che ne vigili l’adozione e che reprima i comportamenti impropri. La conseguenza è quindi che, a fronte della limitazione dell’utilizzo delle immagini, ci sono dei costi diretti, rappresentati dagli uffici deputati a tale scopo, e dei costi indiretti, che riguardano sia aspetti più prettamente economici che elementi di natura culturale (come la mancata diffusione di immagini di elevata qualità delle opere, derivante dall’esigenza di dover “tutelare” le stesse dagli utilizzi impropri).

COSTI E RIPRODUZIONE DELLE IMMAGINI

Bene. Tali costi sociali potrebbero essere ridotti, al netto di variazioni legislative, adottando delle modalità gestionali più evolute rispetto a quanto oggi in essere nel nostro sistema. Ed è questo il punto interessante su cui forse bisognerebbe ragionare, e che si potrebbe, in fin dei conti, estendere a molte altre tematiche che animano il dibattito pubblico nel nostro Paese: concentrandoci sulle dimensioni più concettuali, non abbiamo prestato attenzione alle migliorie che potevano essere applicate all’esistente.
Allora la questione diviene questa: la cultura nella nostra vita democratica ha sicuramente un valore “politico”, ma al contempo evoca innegabilmente anche una dimensione “gestionale”. Sono dimensioni molto differenti, e con tempi molto differenti.
Lasciando che le battaglie culturali facciano il proprio corso, forse è il caso però di prestare più attenzione alle dimensioni gestionali, e migliorare, a parità di condizioni, ciò che è migliorabile, generando maggiore valore culturale e riducendo i costi, in questo come in altri molti ambiti della gestione del patrimonio culturale, che si ripercuotono inevitabilmente sulla collettività.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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