Guerra in Ucraina: quali sono i rischi per la cultura globale?
Se da una parte si moltiplicano i gesti di solidarietà da parte del mondo della cultura, dall’altra il conflitto in Ucraina sta innescando pericolosi atteggiamenti di “pulizia culturale” destinati a incrinare un dialogo che dovrebbe invece contribuire a superare un momento storico fra i più difficili dell’era recente
Le reazioni alla guerra e le manifestazioni come prese di posizioni oltre la “neutralità” ormai sono all’ordine del giorno, anche nel settore culturale, oggettivamente tra i primi a mobilitarsi in questo senso: i musei russi protestano, chiudono, e con loro tanti luoghi di cultura in Europa e nel mondo rivendicano l’impossibilità di sostenere l’illusione della normalità di contro agli eventi di guerra. Ma al di là delle bandiere sventolate o proiettate su palazzi e monumenti, accade che lo storico vicedirettore del Museo Pushkin, Vladimir Opredelenov, si dimetta; o che la Russia non verrà rappresentata alla Biennale di Venezia del 2022 a causa del ritiro dei due artisti che avrebbero dovuto esporre, ovvero i russi Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, e del curatore lituano Raimundas Malašauskas; o ancora si assiste a mobilitazioni attive e aiuti economici, come fatto dai Musei civici di Bergamo e dal MAXXI di Roma, dove quote dei biglietti vengono donate alle Caritas per sostenere gli aiuti umanitari alla popolazione Ucraina.
Una serie di prese di posizione contro i movimenti bellici che ormai toccano tutti gli ambiti della cultura, particolarmente quello della musica e del teatro, con il caso delle dimissioni di Elena Kovalskaya dal Teatro statale e Centro Culturale Vsevolod Meyerhold di Mosca; o ancora con gli appelli ripetuti lanciati dai palchi di tutto il mondo, a cominciare da quello del San Carlo di Napoli, dove abbiamo assistito all’appello per la pace della ballerina Karina Samoylenko con mamma ucraina e padre russo, o all’abbraccio di pace tra il soprano ucraino Liudmyla Monastyrska e il mezzosoprano russo Ekaterina Gubanova al termine di Aida, un abbraccio simbolico tra Ucraina e Russia che ricorda come l’arte e la cultura siano superiori i confini, siano un linguaggio universale e di pace, e che una assunzione di responsabilità “critica” ormai non può più essere elusa, la neutralità non è più considerabile una opzione.
IL RISCHIO DI UNA “PULIZIA CULTURALE”
Ma purtroppo accanto a tali gesti volti a rinnovare il dialogo e a costruire ponti, sempre più si stanno accompagnando reazioni scomposte che rasentano una sorta di pericolosa “pulizia culturale” contro la Russia e il suo immenso retaggio culturale: Tugan Sokhiev, direttore musicale del teatro Bol’šoj e dell’Orchestra Nazionale di Tolosa, si è dimesso da entrambi con effetto immediato “contro l’invasione russa in Ucraina, contro Putin, contro la guerra, ma anche contro chi vorrebbe ‘assoldare’ musicisti, compositori, artisti vivi e morti, senza rendersi conto che la musica e la cultura sono ponti, non muri”. Ma anche perché “durante gli ultimi giorni”, dice Sokhiev, “ho assistito a qualcosa che pensavo non avrei mai visto in vita mia. In Europa oggi sono costretto a fare una scelta e a scegliere una mia famiglia musicale o l’altra. Presto mi verrà chiesto di scegliere tra Čajkovskij, Stravinskij, Šostakovič e Beethoven, Brahms, Debussy. Sta già succedendo in Polonia, Paese europeo, dove la musica russa è proibita”. Una motivazione che riporta alla mente il caso Paolo Nori e il corso su Dostoevskij in Bicocca. In questo senso, il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, si è detto contrario alla campagna di ostracismo verso la cultura russa: “Sono assolutamente assurde e controproducenti richieste come abbattere statue di autori russi, non mandare per punizione opere in Russia per dieci anni, oppure chiudere il museo delle icone russe di Palazzo Pitti”.
Allora forse la guerra è più vicina di quel che pensiamo, e forse la stiamo in qualche modo già combattendo anche in casa nostra, e in maniera più sinistra perché si insinua in un contesto, quello culturale, che proprio dovrebbe ergersi al di sopra della guerra stessa, come faro, come diga al delirio: perché i narratori di cultura sono i narratori delle vite e delle vicende su cui la nostra civiltà si è costruita e continua costruirsi. Riflettono i nostri e altrui valori, quelli che vogliamo mantenere e quelli da diffondere (e anche quelli da accantonare). Sono i depositari della nostra memoria collettiva e, in quanto tali, i formatori di quella futura. E un patrimonio culturale che cade sotto le bombe, o con l’isolamento e la negazione, è una parte perduta della nostra identità.
“La guerra si sta insinuando in un contesto, quello culturale, che proprio dovrebbe ergersi al di sopra della guerra stessa”
Lo ricorda la Convenzione di Faro, che ha introdotto il diritto, individuale e collettivo, al patrimonio culturale, e a condividerne i valori e trasmetterli alle generazioni future. L’Ucraina l’ha ratificata nel 2014, l’Italia nel 2020 e questo dovrebbe significare qualcosa in termini di responsabilità condivisa. La Russia non l’ha mai ratificata (come molti altri Paesi, d’altra parte), ma ciò non significa molto alla fine. Perché parliamo di un patrimonio comune, che ci ha plasmati, tutti. Un ruolo centrale nello sviluppo globale che solo un anno fa l’ONU ha riconosciuto, indicando la creatività e la cultura come settori chiave per la ripresa, “che contribuiscono al dialogo e alla comprensione dei popoli e allo stesso tempo sono ambiti fertili per l’innovazione e per una crescita inclusiva e sostenibile”. Tuttavia in molti, troppi, paiono essersene dimenticati. Così oggi, sotto i colpi della battaglia, il patrimonio che cade è quello di entrambi i fronti, di entrambi i popoli, quindi di tutti i popoli (anche un po’ dell’Italia) che rischiano di veder la propria identità cancellata da una “pulizia culturale” crudele, fisica e ideologica: da un lato cadono le università, i teatri e i musei circondati dal filo spinato e le stelle di frisa. Cade il cuore di un territorio, con i manufatti storici sradicati e nascosti in luoghi segreti o portarti oltre i confini (come nel caso del crocefisso della cattedrale di Leopoli). E cade anche dall’altro lato con la cancellazione forzata della memoria culturale storica in pericolosi impeti revisionistici. Ma a cadere più di tutti è anche la nostra identità comune, che sarà in ogni caso ogni giorno più povera.
‒ Massimiliano Zane
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