Reportage da Art Rotterdam 2019
All’interno dello splendido ex complesso industriale van Nell, Patrimonio Unesco, anche l’edizione del ventennale della fiera non ha tradito le attese, confermando la vivacità della città olandese in fatto di arte contemporanea. Di seguito una selezione di artisti capaci di riflettere sulla condizione dell’umanità, sul valore della memoria, sull’insondabilità del destino.
KAY WALKOWIAK ‒ ZELLER VAN ALMSICK
Con il suo complesso linguaggio guarda all’installazione, all’architettura, alla scultura, il tutto unito dalla fotografia. Kay Walkowiak (Salisburgo, 1980) è autore di straordinari viaggi nella cultura estetica del passato, letta attraverso la lente della contemporaneità, prendendo a modello esperienze di Paesi in via di sviluppo. Il suo toccante bianco e nero coglie la decadente bellezza di Chandigarh, sospesa fra la modernità di Le Corbusier e la tradizione dei templi induisti; sovrapposizioni di epoche e simboli, di differenti urgenze spirituali e materiali, in una sfida che ancora non ha trovato un vincitore.
JONAS MAAS ‒ PHILIPP VON ROSEN GALERIE
Il giovane tedesco Jonas Maas (Treviri, 1985) propone le sue personali risposte alle vecchie questioni che la pittura si pone circa la superficie e la spazialità. Le sue stampe sono eseguite con i raggi ultravioletti, spesso su superfici trattate a gesso. La combinazione di più motivi geometrici ‒ griglie, quadrettature o forme circolari ‒, insieme alla brillantezza ottenuta tramite la tecnica di stampa, creano l’illusione di espandere la superficie dell’opera, di metterla in movimento, riallacciandosi così all’arte cinetica che nell’Europa del nord vanta una tradizione ormai secolare. Senza dimenticare la metafora del perenne movimento dell’arte verso nuove tecnologie, ma anche verso nuovi confini da abbattere.
PIETER JENNES ‒ THE WHITE HOUSE GALLERY
Fra gli artisti che la galleria belga ha presentato a Rotterdam, merita l’attenzione Pieter Jennes (Mortsel, 1990), artefice di una pittura figurativa che omaggia il drammatico espressionismo del compatriota James Ensor, ma che tuttavia possiede anche un’indecifrabile, quasi disturbante sospensione fra ironia e disperazione, mutuata dai Fauves, come Derain e Utrillo, suggerita anche dai titoli, spesso di matrice leopardiana. L’incertezza dell’indomani si accompagna a una nota di scanzonato vagabondaggio, dalla matrice letteraria vicina a John Fante e Jack Kerouac.
KRYZECKI, ISKIN, GARD ‒ SEXAUER GALLERY
Un altro omaggio all’arte cinetica, ma anche al costruttivismo, attraverso la selezione dei disegni tracciati con la penna a sfera di Caroline Kryzecki, le figure biomorfe di Alexander Iskin e le pitture acriliche in rilievo di Jay Gard. La prima esegue esercizi di calligrafia in blu, nero, rosso e verde, ispirandosi agli errori nei motivi delle stampe industriali. Punti di rottura che generano nuove, impreviste soluzioni. Iskin si avvicina invece a corde figurative, omaggiando più da vicino i costruttivisti del primo Novecento, lontano però dall’impegno politico; le ambiguità compositive che creano i suoi dipinti sono la metafora delle ambiguità delle relazioni umane. Infine Gard svolge un lavoro di carattere estetico, di sperimentazione quasi su scala industriale delle possibilità di combinazione delle lastre colorate nel produrre forme e oggetti.
LAURENCE AËGERTER ‒ GALERIE CAROLINE O’BREEN
Approccio filosofico per Laurence Aëgerter (Marsiglia, 1972), che con il suo lavoro affronta lo stato di trasformazione permanente insito nell’essenza delle cose, un agire che ha conseguenze sulla formazione e la conservazione della memoria collettiva. Intervenendo su celebri opere d’arte come Il ruffiano di Gerard van Honthorst, o manipolando fotografie di paesaggi, nasce un discorso di sovrapposizione di linguaggi che segnano il cambiamento delle percezioni, dovute allo sviluppo della sensibilità sociale, ma anche, nel caso della natura, a semplici avvicendamenti atmosferici. Un lavoro concettuale che ricorda, al fondo, la fragilità dell’esistenza umana, la cui spiritualità legata alla memoria è continuamente posta in discussione.
HELEN VERHOEVEN ‒ STIGTER VAN DOESBURG
Indagine sulla carnalità dell’essere umano in toni picassiani; questo il senso del lavoro di Helen Verhoeven (Leida, 1974), le cui grandi tele possiedono il respiro di quelle di Mougins del maestro. Un afflato narrativo giottesco, per l’elementarità del tratto, si combina con le rotondità delle Demoiselles, e crea tensioni spirituali fra il cielo e la terra, con Dio quale severo giudice di dantesca memoria. È il Medioevo, infatti, il serbatoio dell’ispirazione concettuale della Verhoeven, con il suo gravoso carico di peccati da espiare e di passioni da contenere. E, sottilmente, l’insinuazione nietzschiana che il Paradiso sia scomparso e un abisso di polvere attenda l’umanità dopo che si è consumata in nome dell’eros.
ANDREA FRECKMANN ‒ GALERIE MAURITS VAN DE LAAR
Realtà e afflato teatrale si incontrano nelle opere di Andrea Freckmann (Dortmund, 1970), che rimandano, nella composizione, ai bozzetti goldoniani della Commedia dell’Arte e alla tradizione circense, trasportate però nella quotidianità del XXI Secolo. Interni domestici, cani acrobati, surreali giardini ingombri di mobilia e oggetti disparati, ritratti attraverso una zingaresca pittura naif che racconta un’umanità precaria, incline a rendersi ridicola accettando le sue sventure con il fatalismo dei deboli.
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MAR HERNÁNDEZ ‒ WHITE NOISE GALLERY
Lo spazio domestico è al centro dell’indagine della spagnola Mar Hernández (Madrid, 1984), che lo concepisce come il luogo dove la sfera mentale aderisce più compiutamente alla sfera fisica dell’essere umano. Il sovrapporsi di situazioni e lo stratificarsi di esistenze diverse riconduce allo scorrere del tempo e alla conseguente sedimentazione della memoria, di cui gli ambienti domestici sono lo scrigno d’elezione. La catalogazione antropologica, il fissare nel tempo un preciso istante, si accompagnano a opere grafiche che hanno il sapore del capriccio settecentesco, e ne possiedono il medesimo, struggente sentimento di abbandono.
ROMAN MORICEAU ‒ ARCHIRAAR GALLERY
La caducità dell’esistenza poeticamente richiamata dall’impalpabilità del fumo e della delicatezza dei fiori. Una riflessione poetica tradotta in immagine per mezzo di una tecnica originale, come l’utilizzo del fumo colorato per affidare alla carta l’impronta dei fiori, prima che siano ridotti in polvere. Roman Moriceau (Angers, 1976) è un poeta dell’immagine che si ispira al concetto giapponese di Mono no Aware, che intende l’emozione suscitata da ogni singola cosa, emozione destinata a svanire. Ed è questo dissolversi che assume importanza speculativa, e che l’artista cattura fissandolo con un elemento altrettanto effimero come il fumo. Un omaggio alla cultura giapponese permeata da un profondo senso di morte.
‒ Niccolò Lucarelli
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