Nasce Future Fair. La fiera newyorkese con un nuovo modello di sostenibilità per le gallerie
36 gallerie partecipanti e la ridistribuzione del guadagno complessivo a fine manifestazione: sono le regole della fiera newyorkese, che lancia un nuovo modello economico sostenibile. Se qualcuno incassa tanto, condivide con gli altri
Fare “meno e meglio” pare sia la formula adottata da Rachel Mijares Fick e Rebeca Laliberte. Organizzatrice in fiere internazionali la prima, e art advisory la seconda, nella prossima primavera lanceranno un originale format fieristico, da loro ideato, che si propone di riscrivere le regole del gioco. Si tratta di Future Fair, l’evento di arte contemporanea che si svolgerà dal 7 al 9 maggio 2020 giusto in concomitanza con Frieze New York. La sede sarà ai Canoe Studios, un loft industriale che si affaccia sullo skyline della città, posto tra Chelsea e il nuovissimo quartiere di Hudson Yards. Ciò che la rende diversa dalle altre è il numero di gallerie presenti, il display e, soprattutto, il principio di redistribuzione degli utili che permetterà a tutti i partecipanti (anche quelli che sono stati meno abili o fortunati nelle vendite) di tornare a casa senza un bilancio economico da bagno di sangue.
FUTURE FAIR: UN NUMERO RISTRETTO DI GALLERIE
A partecipare saranno solo 36 gallerie, accuratamente selezionate. Un piccolo numero che predilige la qualità alla quantità, con tutto ciò che ne comporta: il display fieristico sarà organizzato in diverse stanze con progetti curati in un ambiente intimo, conviviale. Spazio dunque al racconto, all’incontro, alla conversazione e alla costruzione di un rapporto meno frettoloso con gli acquirenti. I nomi delle gallerie selezionate verranno comunicati entro la fine dell’anno.
FUTURE FAIR: UN NUOVO MODELLO
“Ispirata da modelli di business cooperativi, Future Fair considera le gallerie come i propri azionisti”, spiegano le organizzatrici, “quelle che parteciperanno all’edizione inaugurale della fiera saranno incluse in un piano di compartecipazione agli utili con l’azienda per i primi 5 anni, dividendo il 35% dei profitti totali”. Il modello proposto da Mijares Fick e Laliberte ribalta la visione dell’evento fieristico, non più considerato come una piazza di scambio dove tutti sgomitano per arrivare primi a discapito degli altri, ma come un percorso verso un obbiettivo comune. Certo, stando ai pronostici, le prime edizioni potrebbero non avere un largo margine di profitto. Come spesso accade nelle nuove imprese, si punta al pareggio. Ma successivamente ci si aspetta che le “Founding Galleries”, come vengono chiamate le gallerie che parteciperanno alla prima edizione, ottengano un ritorno pari a tre o quattro volte l’investimento di partenza (i costi variano dai 6.500 ai 10.900 dollari, a seconda delle dimensioni della stanza occupata). A questo punto, avranno la possibilità di accettare il denaro sotto forma di pagamento in contanti, usarlo come credito per la fiera dell’anno successivo o fare un “Pay It Forward”, ovvero investirlo per sponsorizzare gallerie emergenti nelle future edizioni, alimentando così un network solidale all’insegna della collaborazione tra realtà diverse. Sarà un po’ utopistico ma senz’altro vale la pena provare e vale la pena seguire come andrà, anche perché il modello attuale non è (ribadiamolo: non è!) sostenibile e dunque è importante ipotizzare alternative prima che sia troppo tardi.
LA SFIDA DI FUTURE FAIR
Ma il mercato dell’arte è pronto a seguire un modello di business cooperativo? È la grande sfida che si pongono le due fondatrici di Future Fair. Attendendo le risposte, che arriveranno nella prossima primavera, certo è che una simile iniziativa può rappresentare un incipit per una bella scossa al sistema. Un tentativo di attenuare quella forbice molto ampia che esiste tra le più potenti gallerie mondiali (le megas) e quelle di medie e piccole dimensioni che lottano ogni giorno contro l’incertezza di un mercato impervio. E se oggi il format delle gallerie è messo profondamente in discussione (ve ne avevamo già parlato in questa inchiesta), perché allora non dovrebbe esserlo anche quello delle fiere? Tentare quindi di alleviare quella pressione, data dagli alti costi di stand, spedizione e assicurazione delle opere, per dare più spazio alla ricerca e alla qualità dei lavori proposti (e ben vengano ulteriori soluzioni, in virtù di un cambiamento al passo con i tempi), potrebbe tornare a beneficio non solo di chi vende, ma di tutto il sistema: artisti, collezionisti, non profit, musei. E pubblico.
-Giulia Ronchi
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